Ti amo, Signore, mia forza, Signore – Hanno scavato le mie mani e i miei piedi

11 Giugno
Ti amo, Signore, mia forza, Signore

È il Salmo del giusto perseguitato, nella sofferenza, nella grande angoscia, prega il Signore e da Lui ottiene immediata risposta. La descrizione dell’intervento di Dio non appena ascolta il grido del giusto è “divinamente stupenda”. Il Signore viene sulle ali di un cherubino e tutta la natura viene sconvolta vedendo il suo Creatore volare in soccorso del suo amico in difficoltà per portargli il conforto della sua presenza.

È il Salmo che è un vero inno di fede e di lode al Dio che è vero liberatore per quanti confidano in Lui. Dopo questo Salmo necessariamente nel cuore del giusto, di ogni giusto, deve nascere una fede nuova nel suo Dio. Ora sa chi è veramente il suo Signore. È Colui nel quale si può sempre sperare, nel quale si può confidare, perché Lui mai delude i suoi amici e subito viene e li salva.

La caratteristica di questo Salmo ci rivela che esso è stato pensato e cantato a Dio dopo la liberazione avvenuta. Il giusto medita sulla sua vita avvolta dal grande pericolo, già nei lacci della morte, ricorda la sua preghiera di aiuto e l’intervento di salvezza del Signore, è innalza a Lui questo poderoso canto. In qualche modo lo possiamo paragonare al Canto di Mosè dopo che il popolo aveva passato il Mar Rosso.

Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore e dissero:

«Voglio cantare al Signore, perché ha mirabilmente trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare.

Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza. È il mio Dio: lo voglio lodare, il Dio di mio padre: lo voglio esaltare! Il Signore è un guerriero, Signore è il suo nome.

I carri del faraone e il suo esercito li ha scagliati nel mare; i suoi combattenti scelti furono sommersi nel Mar Rosso. Gli abissi li ricoprirono, sprofondarono come pietra. La tua destra, Signore, è gloriosa per la potenza, la tua destra, Signore, annienta il nemico; con sublime maestà abbatti i tuoi avversari, scateni il tuo furore, che li divora come paglia. Al soffio della tua ira si accumularono le acque, si alzarono le onde come un argine, si rappresero gli abissi nel fondo del mare.

Il nemico aveva detto: “Inseguirò, raggiungerò, spartirò il bottino, se ne sazierà la mia brama; sfodererò la spada, li conquisterà la mia mano!”. Soffiasti con il tuo alito: li ricoprì il mare, sprofondarono come piombo in acque profonde. Chi è come te fra gli dèi, Signore? Chi è come te, maestoso in santità, terribile nelle imprese, autore di prodigi? Stendesti la destra: li inghiottì la terra.

Guidasti con il tuo amore questo popolo che hai riscattato, lo conducesti con la tua potenza alla tua santa dimora. Udirono i popoli: sono atterriti. L’angoscia afferrò gli abitanti della Filistea. Allora si sono spaventati i capi di Edom, il pànico prende i potenti di Moab; hanno tremato tutti gli abitanti di Canaan. Piómbino su di loro paura e terrore; per la potenza del tuo braccio restino muti come pietra, finché sia passato il tuo popolo, Signore, finché sia passato questo tuo popolo, che ti sei acquistato.

Tu lo fai entrare e lo pianti sul monte della tua eredità, luogo che per tua dimora, Signore, hai preparato, santuario che le tue mani, Signore, hanno fondato. Il Signore regni in eterno e per sempre!».

Quando i cavalli del faraone, i suoi carri e i suoi cavalieri furono entrati nel mare, il Signore fece tornare sopra di essi le acque del mare, mentre gli Israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare. Allora Maria, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un tamburello: dietro a lei uscirono le donne con i tamburelli e con danze. Maria intonò per loro il ritornello: «Cantate al Signore, perché ha mirabilmente trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare!» (Es 15,1-21).

Una frase che sempre mi ha fatto riflettere è un versetto della Vulgata. La sapienza del Signore nessuno mai la potrà sopraffare. Il Dio del giusto vince il perverso servendosi della sua stessa perversità. Nessuno mai potrà dire: ho vinto il Signore.

“Cum sancto sanctus eris et cum viro innocente, innocens eris et cum electo electus eris et cum perverso perverteris. Con l’uomo buono tu sei buono, con l’uomo integro tu sei integro, con l’uomo puro tu sei puro e dal perverso non ti fai ingannare” (Sal 17,26-27).

Il Salmo offre al credente una visione altissima del Signore. Lui è il solo Liberatore dell’uomo. È colui che governa il cielo e la terra, il tempo e l’eternità. Nulla sfugge al suo volere. Tutto è possibile al suo amore. Lui è veramente il Signore.

Al maestro del coro. Di Davide, servo del Signore, che rivolse al Signore le parole di questo canto quando il Signore lo liberò dal potere di tutti i suoi nemici e dalla mano di Saul. Disse dunque:

Ti amo, Signore, mia forza, Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio; mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo. Invoco il Signore, degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici.

Mi circondavano flutti di morte, mi travolgevano torrenti infernali; già mi avvolgevano i lacci degli inferi, già mi stringevano agguati mortali. Nell’angoscia invocai il Signore, nell’angoscia gridai al mio Dio: dal suo tempio ascoltò la mia voce, a lui, ai suoi orecchi, giunse il mio grido.

La terra tremò e si scosse; vacillarono le fondamenta dei monti, si scossero perché egli era adirato. Dalle sue narici saliva fumo, dalla sua bocca un fuoco divorante; da lui sprizzavano carboni ardenti. Abbassò i cieli e discese, una nube oscura sotto i suoi piedi. Cavalcava un cherubino e volava, si librava sulle ali del vento.

Si avvolgeva di tenebre come di un velo, di acque oscure e di nubi come di una tenda. Davanti al suo fulgore passarono le nubi, con grandine e carboni ardenti. Il Signore tuonò dal cielo, l’Altissimo fece udire la sua voce: grandine e carboni ardenti. Scagliò saette e li disperse, fulminò con folgori e li sconfisse.

Allora apparve il fondo del mare, si scoprirono le fondamenta del mondo, per la tua minaccia, Signore, per lo spirare del tuo furore. Stese la mano dall’alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi acque, mi liberò da nemici potenti, da coloro che mi odiavano ed erano più forti di me.

Mi assalirono nel giorno della mia sventura, ma il Signore fu il mio sostegno; mi portò al largo, mi liberò perché mi vuol bene. Il Signore mi tratta secondo la mia giustizia, mi ripaga secondo l’innocenza delle mie mani, perché ho custodito le vie del Signore, non ho abbandonato come un empio il mio Dio.

I suoi giudizi mi stanno tutti davanti, non ho respinto da me la sua legge; ma integro sono stato con lui e mi sono guardato dalla colpa. Il Signore mi ha ripagato secondo la mia giustizia, secondo l’innocenza delle mie mani davanti ai suoi occhi.

Con l’uomo buono tu sei buono, con l’uomo integro tu sei integro, con l’uomo puro tu sei puro e dal perverso non ti fai ingannare. Perché tu salvi il popolo dei poveri, ma abbassi gli occhi dei superbi.

Signore, tu dai luce alla mia lampada; il mio Dio rischiara le mie tenebre. Con te mi getterò nella mischia, con il mio Dio scavalcherò le mura. La via di Dio è perfetta, la parola del Signore è purificata nel fuoco; egli è scudo per chi in lui si rifugia. Infatti, chi è Dio, se non il Signore? O chi è roccia, se non il nostro Dio?

Il Dio che mi ha cinto di vigore e ha reso integro il mio cammino, mi ha dato agilità come di cerve e sulle alture mi ha fatto stare saldo, ha addestrato le mie mani alla battaglia, le mie braccia a tendere l’arco di bronzo. Tu mi hai dato il tuo scudo di salvezza, la tua destra mi ha sostenuto, mi hai esaudito e mi hai fatto crescere.

Hai spianato la via ai miei passi, i miei piedi non hanno vacillato. Ho inseguito i miei nemici e li ho raggiunti, non sono tornato senza averli annientati. Li ho colpiti e non si sono rialzati, sono caduti sotto i miei piedi. Tu mi hai cinto di forza per la guerra, hai piegato sotto di me gli avversari.

Dei nemici mi hai mostrato le spalle: quelli che mi odiavano, li ho distrutti. Hanno gridato e nessuno li ha salvati, hanno gridato al Signore, ma non ha risposto. Come polvere al vento li ho dispersi, calpestati come fango delle strade.

Mi hai scampato dal popolo in rivolta, mi hai posto a capo di nazioni. Un popolo che non conoscevo mi ha servito; all’udirmi, subito mi obbedivano, stranieri cercavano il mio favore, impallidivano uomini stranieri e uscivano tremanti dai loro nascondigli.

Viva il Signore e benedetta la mia roccia, sia esaltato il Dio della mia salvezza. Dio, tu mi accordi la rivincita e sottometti i popoli al mio giogo, mi salvi dai nemici furenti, dei miei avversari mi fai trionfare e mi liberi dall’uomo violento. Per questo, Signore, ti loderò tra le genti e canterò inni al tuo nome. Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato, a Davide e alla sua discendenza per sempre (Sal 18 (17) 1-51).

Dal Salmo scaturisce una domanda alla quale urge dare una risposta. Se il Signore è salvezza onnipotente, perché salva per liberazione dal male e non per prevenzione? Perché prima permette che scendiamo negli inferi della sofferenza, della persecuzione, del dolore e poi viene a salvarci? Non potrebbe impedire alla sofferenza di prenderci?

Applicato al Messia, il Giusto sofferente e liberato da Dio: perché Lui deve passare per la croce? Perché il Padre non lo salva prima che finisca sul patibolo? Perché il cherubino è preso solo quando deve liberarlo dalla morte nella morte, nella tomba?

La risposta viene dalla condizione umana. Ogni uomo che vive sulla terra vive nel deserto della sofferenza e del dolore. È questa la condizione. Dio non può sciogliere noi dalla nostra umanità. Essa va vissuta per intero, in ogni sua manifestazione.

Di per sé neanche dovremmo pregare il Signore che ci liberi dalla sofferenza. Dovremmo offrirla per riscattare noi in qualche modo dalle pene dovute per i nostri molteplici peccati. Infatti Gesù non ha chiesto al Padre di essere liberato dalla croce. Ebbe solo un momento di tristezza dinanzi alla croce da abbracciare, ma subito nella preghiera vinse ogni angoscia e si avviò vero il Golgota, essendosi Lui liberamente caricato di tutte le pene dovute ai nostri peccati.

Con l’Incarnazione Cristo ha preso tutto il carico dell’umanità sulle sue spalle e lo ha portato con immenso amore, per purissima obbedienza al Padre. Tutto il Vangelo ci rivela che Cristo cammina decisamente verso il Calvario. È Lui che si reca a Gerusalemme ed è Lui che si lascia catturare. La sua angoscia durò un solo istante. Poi scese nella sua anima una grande pace e Lui compì la sua immolazione offrendosi a Dio come purissimo olocausto di redenzione, espiazione, salvezza.

È questa la condizione umana. Si cammina su una strada di dolore. Si ama il dolore. Lo si offre a Dio in Cristo per la redenzione, in espiazione. Ma nessuno di noi cresce così tanto in sapienza e grazia da comprendere la potente forza di redenzione che contiene in sé il dolore e a causa della nostra fragilità chiediamo al Signore di liberarci. Ma è in ragione della nostra piccolezza spirituale che noi glielo chiediamo.

Il Signore sa sempre quanta sofferenza possiamo portare e ce la fa gustare tutta. Quando vede che non ce la facciamo più, Lui viene e prontamente libera, lasciando che vengano altri momenti di vera umanità e quindi di autentica sofferenza. La liberazione è per amore, perché non vuole che noi cadiamo nel peccato di ribellione. Lui ci ama non vuole che ci perdiamo nella disperazione o nell’abbandono di Lui.

Con Gesù infatti non è intervenuto. Lo ha consegnato per intero a tutto il dolore. Ed è quanto Lui vorrebbe fare con tutti i suoi figli, in modo che giungano nella sua casa con la veste più bianca che si possa uno procurare. D’altronde non ci purifichiamo sulla terra, lo dobbiamo fare nel Purgatorio. Ma le sofferenze della terra sono un nulla per rapporto alle pene del purgatorio. Esse sono indicibili, inimmaginabili, indescrivibili.

San Paolo dice che soffrire per il Vangelo è una grande grazia del Signore. Si può chiedere a Dio che ci privi della sua grazia? La grazia sempre si chiede.

Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo perché, sia che io venga e vi veda, sia che io rimanga lontano, abbia notizie di voi: che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del Vangelo, senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari. Questo per loro è segno di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio. Perché, riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora (Fil 1,27-30).

Dice ancora che la partecipazione alla morte di Cristo è la sola via per essere domani partecipi della sua gloria. Per questo lui può dire che niente lo separerà dall’amore di Cristo Gesù. Lui ha consacrato la sua vita a Cristo per compiere in essa la sua morte.

Che diremo dunque? Rimaniamo nel peccato perché abbondi la grazia? È assurdo! Noi, che già siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere in esso? O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione. Lo sappiamo: l’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è liberato dal peccato (Rm 6,1-7).

Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo considerati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore (Rm 8,35-39).

Quando Lui chiese al Signore che lo liberasse dal pungolo di Satana nella sua carne, la risposta è stata: “Ti basta la mia grazia”. Dalla sofferenza non ci si leva.

Se bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare. Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze. Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato: direi solo la verità. Ma evito di farlo, perché nessuno mi giudichi più di quello che vede o sente da me e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni.

Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte (2Cor 12,1-10).

San Paolo chiede a Timoteo di soffrire insieme con lui per il Vangelo. Questo non significa cercare la sofferenza, ma accoglierla e offrirla al Padre, come Cristo, in Lui.

Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo, per il quale io sono stato costituito messaggero, apostolo e maestro (2Tm 1,6-11).

Tuttavia, quando non si cresce in sapienza e grazia, diviene difficile soffrire per Cristo, in Cristo, con Cristo. Si innalza al Signore la preghiera, il grido di aiuto e Lui che conosce la nostra pochezza subito viene e ci libera. Ogni liberazione deve però accrescere in noi la grazia perché possiamo giungere anche noi a fare della nostra vita un perenne olocausto e un sacrificio perfetto al Signore per la salvezza del mondo. Ogni goccia di sofferenza offerta salva un’anima. Queste è la nostra fede.

Vergine Maria, Madre della Redenzione, Angeli, Santi, aiutateci a soffrire in Cristo.

Hanno scavato le mie mani e i miei piedi

A differenza del Salmo 18 (17), quello sul quale stiamo per addentrarci – il Salmo 22 (21) – è una manifestazione dell’indicibile sofferenza che viene narrata al Signore. È anche una sorprendente profezia della passione di Gesù Signore. È come se il Salmista fosse presso il Golgota, sotto la Croce, e stesse descrivendo quanto vede.

In questo Salmo il Giusto si vede consegnato nelle mani della sofferenza, del dolore, perché sofferenza e dolore facciano di lui ciò che vogliono. Lo sottopongano ad ogni prova. Lo torturino a loro piacimento. È come se il Signore non avesse messo alcun limite. Sappiamo che per Giobbe il Signore per ben due volte impose a Satana un limite da non oltrepassare. Non deve toccare il suo corpo. Non gli deve togliere la vita.

Viveva nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe, integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. Gli erano nati sette figli e tre figlie; possedeva settemila pecore e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e una servitù molto numerosa. Quest’uomo era il più grande fra tutti i figli d’oriente.

I suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro, ciascuno nel suo giorno, e mandavano a invitare le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme. Quando avevano compiuto il turno dei giorni del banchetto, Giobbe li mandava a chiamare per purificarli; si alzava di buon mattino e offriva olocausti per ognuno di loro. Giobbe infatti pensava: «Forse i miei figli hanno peccato e hanno maledetto Dio nel loro cuore». Così era solito fare Giobbe ogni volta.

Ora, un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore e anche Satana andò in mezzo a loro. Il Signore chiese a Satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Dalla terra, che ho percorso in lungo e in largo». Il Signore disse a Satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male». Satana rispose al Signore: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non sei forse tu che hai messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quello che è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti si espandono sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti maledirà apertamente!». Il Signore disse a Satana: «Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stendere la mano su di lui». Satana si ritirò dalla presenza del Signore.

Un giorno accadde che, mentre i suoi figli e le sue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del fratello maggiore, un messaggero venne da Giobbe e gli disse: «I buoi stavano arando e le asine pascolando vicino ad essi. I Sabei hanno fatto irruzione, li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per raccontartelo».

Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «Un fuoco divino è caduto dal cielo: si è appiccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono scampato soltanto io per raccontartelo».

Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «I Caldei hanno formato tre bande: sono piombati sopra i cammelli e li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per raccontartelo».

Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del loro fratello maggiore, quand’ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti. Sono scampato soltanto io per raccontartelo».

Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si prostrò e disse: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!».

In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto (Gb 1,1-22).

Accadde, un giorno, che i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore, e anche Satana andò in mezzo a loro a presentarsi al Signore. Il Signore chiese a Satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Dalla terra, che ho percorso in lungo e in largo». Il Signore disse a Satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. Egli è ancora saldo nella sua integrità; tu mi hai spinto contro di lui per rovinarlo, senza ragione». Satana rispose al Signore: «Pelle per pelle; tutto quello che possiede, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi un poco la mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti maledirà apertamente!». Il Signore disse a Satana: «Eccolo nelle tue mani! Soltanto risparmia la sua vita».

Satana si ritirò dalla presenza del Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo. Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere. Allora sua moglie disse: «Rimani ancora saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!». Ma egli le rispose: «Tu parli come parlerebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?».

In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.

Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a piangere. Ognuno si stracciò il mantello e lanciò polvere verso il cielo sul proprio capo. Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore (Gb 2,1-13).

Anche il lamento di Giobbe è infinitamente differente da quello di Gesù sulla croce.

Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. Prese a dire: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: “È stato concepito un maschio!”. Quel giorno divenga tenebra, non se ne curi Dio dall’alto, né brilli mai su di esso la luce. Lo rivendichino la tenebra e l’ombra della morte, gli si stenda sopra una nube e lo renda spaventoso l’oscurarsi del giorno! Quella notte se la prenda il buio, non si aggiunga ai giorni dell’anno, non entri nel conto dei mesi. Ecco, quella notte sia sterile, e non entri giubilo in essa. La maledicano quelli che imprecano il giorno, che sono pronti a evocare Leviatàn. Si oscurino le stelle della sua alba, aspetti la luce e non venga né veda le palpebre dell’aurora, poiché non mi chiuse il varco del grembo materno, e non nascose l’affanno agli occhi miei!

Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? Perché due ginocchia mi hanno accolto, e due mammelle mi allattarono? Così, ora giacerei e avrei pace, dormirei e troverei riposo con i re e i governanti della terra, che ricostruiscono per sé le rovine, e con i prìncipi, che posseggono oro e riempiono le case d’argento. Oppure, come aborto nascosto, più non sarei, o come i bambini che non hanno visto la luce. Là i malvagi cessano di agitarsi, e chi è sfinito trova riposo. Anche i prigionieri hanno pace, non odono più la voce dell’aguzzino. Il piccolo e il grande là sono uguali, e lo schiavo è libero dai suoi padroni. Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro, che godono fino a esultare e gioiscono quando trovano una tomba, a un uomo, la cui via è nascosta e che Dio ha sbarrato da ogni parte? Perché al posto del pane viene la mia sofferenza e si riversa come acqua il mio grido, perché ciò che temevo mi è sopraggiunto, quello che mi spaventava è venuto su di me. Non ho tranquillità, non ho requie, non ho riposo ed è venuto il tormento!» (Gb 3,1-26).

Giobbe non è un figlio di Abramo. Non conosce la rivelazione. Alla richiesta del perché della sua sofferenza Dio non dona risposta. La dichiara parte di quell’infinito mistero che è vera essenza e sostanza della sua creazione. Tu, Giobbe, sei mistero del grande mistero che è la vita dell’universo. È una risposta che appaga Giobbe. La sua sofferenza non è il frutto della sua giustizia. La sua coscienza trova la pace.

Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano:

«Chi è mai costui che oscura il mio piano con discorsi da ignorante? Cingiti i fianchi come un prode: io t’interrogherò e tu mi istruirai! Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la corda per misurare? Dove sono fissate le sue basi o chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e acclamavano tutti i figli di Dio? Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, e gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?

Da quando vivi, hai mai comandato al mattino e assegnato il posto all’aurora, perché afferri la terra per i lembi e ne scuota via i malvagi, ed essa prenda forma come creta premuta da sigillo e si tinga come un vestito, e sia negata ai malvagi la loro luce e sia spezzato il braccio che si alza a colpire? Sei mai giunto alle sorgenti del mare e nel fondo dell’abisso hai tu passeggiato? Ti sono state svelate le porte della morte e hai visto le porte dell’ombra tenebrosa? Hai tu considerato quanto si estende la terra? Dillo, se sai tutto questo!

Qual è la strada dove abita la luce e dove dimorano le tenebre, perché tu le possa ricondurre dentro i loro confini e sappia insegnare loro la via di casa? Certo, tu lo sai, perché allora eri già nato e il numero dei tuoi giorni è assai grande! Sei mai giunto fino ai depositi della neve, hai mai visto i serbatoi della grandine, che io riserbo per l’ora della sciagura, per il giorno della guerra e della battaglia? Per quali vie si diffonde la luce, da dove il vento d’oriente invade la terra? Chi ha scavato canali agli acquazzoni e una via al lampo tonante, per far piovere anche sopra una terra spopolata, su un deserto dove non abita nessuno, per dissetare regioni desolate e squallide e far sbocciare germogli verdeggianti? Ha forse un padre la pioggia? O chi fa nascere le gocce della rugiada? Dal qual grembo esce il ghiaccio e la brina del cielo chi la genera, quando come pietra le acque si induriscono e la faccia dell’abisso si raggela?

Puoi tu annodare i legami delle Plèiadi o sciogliere i vincoli di Orione? Puoi tu far spuntare a suo tempo le costellazioni o guidare l’Orsa insieme con i suoi figli? Conosci tu le leggi del cielo o ne applichi le norme sulla terra? Puoi tu alzare la voce fino alle nubi per farti inondare da una massa d’acqua? Scagli tu i fulmini ed essi partono dicendoti: “Eccoci!”?

Chi mai ha elargito all’ibis la sapienza o chi ha dato al gallo intelligenza? Chi mai è in grado di contare con esattezza le nubi e chi può riversare gli otri del cielo, quando la polvere del suolo diventa fango e le zolle si attaccano insieme? Sei forse tu che vai a caccia di preda per la leonessa e sazi la fame dei leoncelli, quando sono accovacciati nelle tane o stanno in agguato nei nascondigli? Chi prepara al corvo il suo pasto, quando i suoi piccoli gridano verso Dio e vagano qua e là per mancanza di cibo? )Gb 38,1-41).

Sai tu quando figliano i camosci o assisti alle doglie delle cerve? Conti tu i mesi della loro gravidanza e sai tu quando devono partorire? Si curvano e si sgravano dei loro parti, espellono i loro feti. Robusti sono i loro figli, crescono all’aperto, se ne vanno e non tornano più da esse. Chi lascia libero l’asino selvatico e chi ne scioglie i legami? Io gli ho dato come casa il deserto e per dimora la terra salmastra. Dei rumori della città se ne ride e non ode le urla dei guardiani. Gira per le montagne, sua pastura, e va in cerca di quanto è verde.

Forse il bufalo acconsente a servirti o a passare la notte presso la tua greppia? Puoi forse legare il bufalo al solco con le corde, o fargli arare le valli dietro a te? Ti puoi fidare di lui, perché la sua forza è grande, e puoi scaricare su di lui le tue fatiche? Conteresti su di lui, perché torni e raduni la tua messe sull’aia? Lo struzzo batte festosamente le ali, come se fossero penne di cicogna e di falco. Depone infatti sulla terra le uova e nella sabbia le lascia riscaldare. Non pensa che un piede può schiacciarle, una bestia selvatica calpestarle. Tratta duramente i figli, come se non fossero suoi, della sua inutile fatica non si preoccupa, perché Dio gli ha negato la saggezza e non gli ha dato in sorte l’intelligenza. Ma quando balza in alto, si beffa del cavallo e del suo cavaliere.

Puoi dare la forza al cavallo e rivestire di criniera il suo collo? Puoi farlo saltare come una cavalletta, con il suo nitrito maestoso e terrificante? Scalpita nella valle baldanzoso e con impeto va incontro alle armi. Sprezza la paura, non teme, né retrocede davanti alla spada. Su di lui tintinna la faretra, luccica la lancia e il giavellotto. Con eccitazione e furore divora lo spazio e al suono del corno più non si tiene. Al primo suono nitrisce: “Ah!” e da lontano fiuta la battaglia, gli urli dei capi e il grido di guerra.

È forse per il tuo ingegno che spicca il volo lo sparviero e distende le ali verso il meridione? O al tuo comando l’aquila s’innalza e costruisce il suo nido sulle alture? Vive e passa la notte fra le rocce, sugli spuntoni delle rocce o sui picchi. Di lassù spia la preda e da lontano la scorgono i suoi occhi. I suoi piccoli succhiano il sangue e dove sono cadaveri, là essa si trova» (Gn 39,1-30).

Il Signore prese a dire a Giobbe:

«Il censore vuole ancora contendere con l’Onnipotente? L’accusatore di Dio risponda!».

Giobbe prese a dire al Signore: «Ecco, non conto niente: che cosa ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, due volte ho parlato, ma non continuerò».

Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano: «Cingiti i fianchi come un prode: io t’interrogherò e tu mi istruirai! Oseresti tu cancellare il mio giudizio, dare a me il torto per avere tu la ragione? Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con voce pari alla sua? Su, órnati pure di maestà e di grandezza, rivèstiti di splendore e di gloria! Effondi pure i furori della tua collera, guarda ogni superbo e abbattilo, guarda ogni superbo e umilialo, schiaccia i malvagi ovunque si trovino; sprofondali nella polvere tutti insieme e rinchiudi i loro volti nel buio! Allora anch’io ti loderò, perché hai trionfato con la tua destra.

Ecco, l’ippopotamo che io ho creato al pari di te, si nutre di erba come il bue. Guarda, la sua forza è nei fianchi e il suo vigore nel ventre. Rizza la coda come un cedro, i nervi delle sue cosce s’intrecciano saldi, le sue vertebre sono tubi di bronzo, le sue ossa come spranghe di ferro. Esso è la prima delle opere di Dio; solo il suo creatore può minacciarlo con la spada. Gli portano in cibo i prodotti dei monti, mentre tutte le bestie della campagna si trastullano attorno a lui. Sotto le piante di loto si sdraia, nel folto del canneto e della palude. Lo ricoprono d’ombra le piante di loto, lo circondano i salici del torrente. Ecco, se il fiume si ingrossa, egli non si agita, anche se il Giordano gli salisse fino alla bocca, resta calmo. Chi mai può afferrarlo per gli occhi, o forargli le narici con un uncino?

Puoi tu pescare il Leviatàn con l’amo e tenere ferma la sua lingua con una corda, ficcargli un giunco nelle narici e forargli la mascella con un gancio? Ti rivolgerà forse molte suppliche o ti dirà dolci parole? Stipulerà forse con te un’alleanza, perché tu lo assuma come servo per sempre? Scherzerai con lui come un passero, legandolo per le tue bambine? Faranno affari con lui gli addetti alla pesca, e lo spartiranno tra i rivenditori? Crivellerai tu di dardi la sua pelle e con la fiocina la sua testa? Prova a mettere su di lui la tua mano: al solo ricordo della lotta, non ci riproverai! (Gb 40,1-32).

Ecco, davanti a lui ogni sicurezza viene meno, al solo vederlo si resta abbattuti. Nessuno è tanto audace da poterlo sfidare: chi mai può resistergli? Chi mai lo ha assalito e ne è uscito illeso? Nessuno sotto ogni cielo. Non passerò sotto silenzio la forza delle sue membra, né la sua potenza né la sua imponente struttura. Chi mai ha aperto il suo manto di pelle e nella sua doppia corazza chi è penetrato? Chi mai ha aperto i battenti della sua bocca, attorno ai suoi denti terrificanti? Il suo dorso è formato da file di squame, saldate con tenace suggello: l’una è così unita con l’altra che l’aria fra di esse non passa; ciascuna aderisce a quella vicina, sono compatte e non possono staccarsi. Il suo starnuto irradia luce, i suoi occhi sono come le palpebre dell’aurora. Dalla sua bocca erompono vampate, sprizzano scintille di fuoco.

Dalle sue narici esce fumo come da caldaia infuocata e bollente. Il suo fiato incendia carboni e dalla bocca gli escono fiamme. Nel suo collo risiede la forza e innanzi a lui corre il terrore. Compatta è la massa della sua carne, ben salda su di lui e non si muove. Il suo cuore è duro come pietra, duro come la macina inferiore. Quando si alza si spaventano gli dèi e per il terrore restano smarriti. La spada che lo affronta non penetra, né lancia né freccia né dardo. Il ferro per lui è come paglia, il bronzo come legno tarlato. Non lo mette in fuga la freccia, per lui le pietre della fionda sono come stoppia. Come stoppia è la mazza per lui e si fa beffe del sibilo del giavellotto. La sua pancia è fatta di cocci aguzzi e striscia sul fango come trebbia. Fa ribollire come pentola il fondo marino, fa gorgogliare il mare come un vaso caldo di unguenti.

Dietro di sé produce una scia lucente e l’abisso appare canuto. Nessuno sulla terra è pari a lui, creato per non aver paura. Egli domina tutto ciò che superbo s’innalza, è sovrano su tutte le bestie feroci» (Gb 41,1-26).

Giobbe prese a dire al Signore: «Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è impossibile. Chi è colui che, da ignorante, può oscurare il tuo piano? Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non comprendo. Ascoltami e io parlerò, io t’interrogherò e tu mi istruirai! Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere» (Gb 42,1-6).

Non solo con Gesù il Padre non pone alcun limite alla sofferenza di Gesù. Lui deve scendere nel dolore là dove mai nessuno è sceso. La sua innocenza non è solo di coscienza, come per Giobbe, è anche di natura. Questa differenza va affermata. Gesù mai ha conosciuto il peccato. Neanche del peccato di Adamo si è macchiato. La sua carne è stata attinta dalla Donna che da Dio era stata preservata dalla colpa antica. Gesù è innocente nella natura e nella coscienza. Per natura Lui è pieno di grazia. Per coscienza nessuno lo potrà mai accusare di peccato.

Alla natura innocente non si addice il peccato. Lui però lo assume volontariamente. Lo assume per amore, al posto nostro. Il suo dolore è vero riscatto, vera espiazione vicaria. Per questo a Lui il Signore non risponde. La risposta è già nella preghiera del Salmo. Lui sa che dopo il suo intimo tormento vedrà la luce.

Il Salmo rivela una profondissima verità: il dolore di Gesù è vero, reale. Non è un dolore fittizio, immaginario, simbolico. Non è apparenza. Le sue carni sentirono tutta la cattiveria e malvagità del cuore dell’uomo. Ma anche il suo spirito e la sua anima furono avvolti dalla sofferenza. Quella di Gesù fu la passione perfetta. Vissuta da Lui nella perfezione della fede, della speranza, della carità. Il suo lamento sulla croce è dimostrativo, rivelatore, svelatore della perfezione e della totalità del dolore.

Al maestro del coro. Su «Cerva dell’aurora». Salmo. Di Davide. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Lontane dalla mia salvezza le parole del mio grido! Mio Dio, grido di giorno e non rispondi; di notte, e non c’è tregua per me.

Eppure tu sei il Santo, tu siedi in trono fra le lodi d’Israele. In te confidarono i nostri padri, confidarono e tu li liberasti; a te gridarono e furono salvati, in te confidarono e non rimasero delusi.

Ma io sono un verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo: «Si rivolga al Signore; lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!».

Sei proprio tu che mi hai tratto dal grembo, mi hai affidato al seno di mia madre. Al mio nascere, a te fui consegnato; dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio. Non stare lontano da me, perché l’angoscia è vicina e non c’è chi mi aiuti.

Mi circondano tori numerosi, mi accerchiano grossi tori di Basan. Spalancano contro di me le loro fauci: un leone che sbrana e ruggisce.

Io sono come acqua versata, sono slogate tutte le mie ossa. Il mio cuore è come cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere. Arido come un coccio è il mio vigore, la mia lingua si è incollata al palato, mi deponi su polvere di morte.

Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori; hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa. Essi stanno a guardare e mi osservano: si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte.

Ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto. Libera dalla spada la mia vita, dalle zampe del cane l’unico mio bene. Salvami dalle fauci del leone e dalle corna dei bufali. Tu mi hai risposto!

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea. Lodate il Signore, voi suoi fedeli, gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe, lo tema tutta la discendenza d’Israele; perché egli non ha disprezzato né disdegnato l’afflizione del povero, il proprio volto non gli ha nascosto ma ha ascoltato il suo grido di aiuto.

Da te la mia lode nella grande assemblea; scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli. I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano; il vostro cuore viva per sempre! Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli.

Perché del Signore è il regno: è lui che domina sui popoli! A lui solo si prostreranno quanti dormono sotto terra, davanti a lui si curveranno quanti discendono nella polvere; ma io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: «Ecco l’opera del Signore!» (Sal 22 (21) 1-32).

Dobbiamo anche comprendere secondo verità quanto insegna la Lettera agli Ebrei. Gesù gridò al Padre, ma non per essere liberato. Gridò per avere la forza, la grazia, per rimanere in Croce. Perché il suo sacrificio fosse in tutto senza alcuna imperfezione rifiutò anche il fiele con il quale in qualche modo avrebbero voluto drogarlo.

Ogni sommo sacerdote, infatti, è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo.

Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato, gliela conferì come è detto in un altro passo: Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek.

Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchìsedek.

Su questo argomento abbiamo molte cose da dire, difficili da spiegare perché siete diventati lenti a capire. Infatti voi, che a motivo del tempo trascorso dovreste essere maestri, avete ancora bisogno che qualcuno v’insegni i primi elementi delle parole di Dio e siete diventati bisognosi di latte e non di cibo solido. Ora, chi si nutre ancora di latte non ha l’esperienza della dottrina della giustizia, perché è ancora un bambino. Il nutrimento solido è invece per gli adulti, per quelli che, mediante l’esperienza, hanno le facoltà esercitate a distinguere il bene dal male (Eb 5,1-14).

Le preghiere e suppliche sono quelle elevate a Dio nell’Orto degli Ulivi. Sono preghiere e suppliche di un momento di grande tentazione. La sua umanità era fortemente tentata perché non andasse in croce. Gesù con la preghiera nuovamente la sottomise all’obbedienza al suo spirito e alla sua anima, che erano totalmente sottomessi al Padre celeste. Gesù sa che deve andare in Croce. Vuole andare in croce perché lo ha già scelto nell’eternità, ancor prima di divenire vero uomo. La sua umanità vorrebbe sottrarsi. Lui prega e nuovamente si aggioga alla volontà del Padre.

Uscì e andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. Giunto sul luogo, disse loro: «Pregate, per non entrare in tentazione». Poi si allontanò da loro circa un tiro di sasso, cadde in ginocchio e pregava dicendo: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». Gli apparve allora un angelo dal cielo per confortarlo. Entrato nella lotta, pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra. Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. E disse loro: «Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione» (Lc 22,39-46).

È l’infinita differenza tra Cristo e Giobbe. Giobbe non sa. Deve accontentarsi di essere parte di un mistero del quale lui non possiede la chiave per entrare in esso. La chiave del mistero è solo la rivelazione, la conoscenza della verità di Dio. Questa si può solo conoscere con la sua sapienza e la luce della sua profezia e di ogni altra sua Parola.

Gesù invece tutto conosce del Padre. Dimora nel seno del Padre, ogni giorno cresce in sapienza e grazia, ogni giorno è guidato dalla pienezza della luce dello Spirito Santo. Lui sa perché deve andare in croce: per amore. La sua è purissima obbedienza all’amore che il Padre vuole dare ad ogni sua creatura da Lui fatta a sua immagine.

La tentazione vorrebbe fermarlo. Satana si serve del dolore e della sofferenza perché Gesù non vada in croce. Gesù si mette in preghiera. Vince la tentazione. Sale sulla croce. Ancora viene tentato perché Lui scenda. Lui rimane sino alla fine. Vince il peccato. Non lo commette la sua purezza è perfetta. È purezza di natura ed è purezza di obbedienza. Per questa purezza di natura e di coscienza redime il mondo.

Il Salmo grida tutta l’infinita sofferenza di Gesù, ci dice che il Padre veramente lo ha consegnato ad una sofferenza senza limite. Ci rivela che Cristo la visse con la fede e la perfetta obbedienza. Ci manifesta tutta la sua speranza nella liberazione che il padre avrebbe portato non dalla croce, dopo di essa. Non dalla morte, ma nella morte. Questo salmo ci rivela quanto siano potenti sia la fede che la grazia con l’amore nel vivere la sofferenza ed offrirla tutta per la redenzione: fede, grazia, amore.

Vergine Maria, Madre della Redenzione, Angeli, Santi, fateci di fede, grazia, amore.