Relazione di S.E Mons. Domenico Battaglia al X Convegno

I Giovani: Voce Profetica di una Chiesa in Uscita

X Convegno Internazionale del Movimento Apostolico

“Ti ascolto: I giovani protagonisti nella Chiesa e nella società”

Catanzaro, 26 novembre 2018

 

Quando penso a Gesù e ai suoi discepoli, al suo chiamarli a stare con lui, a incominciare il cammino, a prendere sul serio il desiderio presente nel loro cuore, non posso non pensare ai giovani.

I giovani sono risorsa perenne nel mondo e nella Chiesa, sono la forza della nostra speranza quando nella generosità rispondono al desiderio di prossimità mettendosi al servizio degli altri, dei più deboli, dei più fragili; sono il respiro della nostra gioia, il motivo autentico del nostro attendere nel presente un futuro possibile; le attese dei giovani, i loro successi e le loro cadute sono per noi sempre luce perché interpellano la nostra capacità di ascolto, la nostra vita, la nostra fede.

Fragili per condizione esistenziale, rivoluzionari per imposizione anagrafica, precari per vocazione e per destino, costruttori di presente e di futuro per profezia. Sono loro la domanda e la risposta, i piccoli maestri del cambiamento possibile.

Mi ritorna alla mente il brano evangelico in cui si racconta la chiamata dei primi discepoli.

 

Gv 1,35-42

Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbi – che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.

Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

 

Gesù passava: è un tempo al passato che si prolunga fino ad oggi, ai nostri giorni, alla nostra vita. È un Gesù che passa sulle strade, sulle strade di tutti. E non ha cambiato stile il Signore: passa, per le strade. Ma c’è qualcuno che lo indichi per le strade? O siamo tutti occupati ad indicarlo nelle chiese? E non seminiamo più il sospetto che, ancora oggi, passi nel quotidiano, nel quotidiano più quotidiano: la strada, la casa. C’è ancora qualcuno che scruta i segni del tempo, i segni del passaggio di Gesù?

Gesù passa attraverso i luoghi della quotidianità, lungo le strade, nelle case, attraverso le persone che incontriamo. Spesso ripeto: “Non cercate nel Cristo il volto di un uomo solo ma in ogni uomo cercate il volto del Cristo”. Lui continua a passare attraverso le vite che ci mette accanto perché è Lui che fissa gli appuntamenti, noi siamo solo chiamati ad avere il cuore libero e disponibile e a dargli una mano. E allora, se davvero crediamo che è così, come possiamo non vedere nei giovani che ci sono affidati, il passaggio di Gesù nella nostra vita?

Il brano del Vangelo ci parla di un’ora precisa: le 4 del pomeriggio. Non tutte le ore sono uguali. Quest’ora ha cambiato la vita di quei discepoli. Proviamo a chiudere gli occhi per un istante e a pensare a quante e quali ore hanno cambiato la nostra vita, quali appuntamenti l’hanno segnata.

Stefano…

Faccio riferimento a questo incontro che ha segnato la mia vocazione di uomo e di prete perché mi ha indicato dove andare. Nell’inquietudine dei miei ragazzi ho imparato a leggere una ricerca infinita di vita e di Dio. Lo smarrimento che ho sperimentato di fronte alla loro morte e alla drammaticità della loro esistenza, mi ha fatto rendere conto che ciascuno di loro è stato per me strumento di reale conversione.

L’incontro con l’altro richiede sempre la nostra attenzione totale, un’attenzione che esige di venire a contatto con l’altrui, ma prima ancora con la propria fragilità. Ogni volta che penso alla parola fragilità, mi vengono in mente quegli enormi pacchi tetragoni al cui interno si nasconde, si preserva, qualcosa di piccolo, di fragile, di prezioso. Accanto all’etichetta fragile, è apposta un’altra etichetta “maneggiare con cura”.

Tutto questo conduce ad un cambiamento nell’orientamento del nostro cuore e, prima ancora, comporta la conversione dello sguardo, perché lo sguardo arriva sempre prima del cuore.

Lo sguardo della tenerezza ha la sua sorgente nella tenerezza di Dio, è Lui il primo a mostrarti il Suo volto. A convertirti è la tenerezza che pulsa nello sguardo dell’altro. Che non ti guarda dall’alto in basso. Che va invece a riconoscere e a scommettere sulla bellezza che è in te.

Ogni storia è intrisa di speranze, di sogni, di desideri e credo che la Chiesa possa e debba essere segno della tenerezza di Dio, perché è Dio che si ferma accanto ad ogni uomo e ad ogni donna e li cerca in tutta la loro bellezza, anche e soprattutto quando è attraversata da ferite. Il Signore non abbandona mai e vive con noi, dentro ogni condizione umana. Portare la sua carezza, questo ci è chiesto. Portare la sua presenza lì dove già Lui è presente.

Una carezza che infonda coraggio a chi vive nella paura.

Una carezza che doni speranza a chi è avvolto nell’ombra della delusione e della rassegnazione.

Una carezza che indichi la via a chi è smarrito.

Una carezza che rianimi la forza in chi è stanco e scoraggiato.

Una carezza che faccia sentire meno solo il fratello abbandonato ed emarginato.

Una carezza che riempia di Presenza il nostro presente.

E la carezza la si dà anche attraverso lo sguardo.

Fissando lo sguardo su di lui… Mi colpisce molto questo verbo: fissare. È il verbo greco emblèpein, significa guardare in profondità, con intensità, cioè guardare dentro. Un verbo che ci viene proposto, oserei dire consegnato. Che differenza ci può essere negli occhi, e in uno sguardo. Noi misuriamo tutta la differenza che passa dal sentirci guardati, spesso, superficialmente o invece intensamente, appassionatamente. Cerimonie distanti, quando ti stringono le mani ma gli occhi sono già a guardare chi viene dopo di te. E, al contrario, occasioni di grazia, in cui ti è dato sentire gli occhi dell’altro che ti entrano dentro, ti accarezzano.

Il Signore passa anche oggi su tutte le strade. Non disprezziamo le strade. Ma se il nostro sguardo è superficiale e frettoloso, non ce ne accorgiamo. E non illudiamoci di avere occhi penetranti con Dio se non abbiamo occhi penetranti con la vita. Se sei distratto con la vita, sei distratto con tutto, anche con Dio.

Gesù fissa lo sguardo e va all’essenza più vera, alla fonte di quella sete di infinito che i discepoli si portano dentro. E anche a noi, chiamati ad essere discepoli, è chiesto di andare oltre, di imparare a vedere l’orizzonte custodito nel cuore dei nostri ragazzi, ci è chiesto di mettere da parte i nostri pre-concetti, le nostre convinzioni pre-confezionate e di fissare l’altro per riscoprirlo sognato e sognatore.

Dobbiamo chiederci, allora: Qual è il nostro sguardo sui giovani? Per noi sono veramente un dono o li vediamo ancora come un problema? Cerchiamo di essere onesti con noi stessi e diciamoci se li consideriamo una risorsa da sfruttare e non persone che, con la loro presenza, sono provocazione al reale rinnovamento e cambiamento. Ci sentiamo in questo senso punto di riferimento credibile per i giovani? Quando diciamo che i giovani sono voce profetica in una Chiesa veramente in uscita, cosa stiamo affermando? Le nostre comunità hanno il coraggio di rivelare oggi il volto e il cuore di una Chiesa madre, che guarda con amore i passi dei suoi figli, che “comprende, accompagna, accarezza”?

Cerco di non dimenticare mai che i giovani sono creta benedetta da Dio che non guarda alla simmetricità della loro esistenza ma alla stravolgente asimmetricità del loro vivere che rende vere le loro storie, diversi i loro volti, profondi i loro sguardi. L’inquietudine, la fragilità, e il camminare incerto sono, oserei dire, fasi necessarie per superare la frammentazione esistenziale e per giungere ad una maturazione umana tendenzialmente unitaria. Il “si” alla vita lo si può riconoscere solo dentro l’esistenza dove abita la contraddizione e la coerenza, il caos e l’armonia, il senso e il non-senso.

L’aver condiviso in prima persona tante storie di giovani in difficoltà ha formato il mio sguardo e risvegliato la mia coscienza aiutandone la libera responsabilità in termini di un accompagnamento concreto e di una sensibilità a cogliere la realtà del discernimento nella sua complessità. Il tipo di ascolto che viene da queste profonde fragilità costringe a mettersi l’uno davanti all’altro con la propria storia, la propria condizione, la diversità di strumenti e di formazione.

Noi adulti conosciamo molto bene cosa vuol dire fare esperienza del nostro limite, del fallimento. La fatica dei giovani oggi mi parla a partire da questa mia consapevolezza che è maturata nel tempo. Condividere la strada, la vita, con gli ultimi, con i giovani, dovrebbe permettere di assumere la prossimità (cura delle relazioni), che è la cosa più importante e bella della nostra vita, come fondamento.

Lo sguardo costante alla qualità delle nostre relazioni e alle vie concrete di prossimità dovrebbe aiutarci a cogliere i disagi reali e non evidenti di chi ci è vicino, dei giovani che ci sono vicini. Questa diventa la via per sognare di camminare insieme anche a quelli più lontani, attraverso una mediazione possibile dei giovani ai giovani. È questa la vocazione in cui si manifesta la parola stessa di Gesù a ogni giovane oggi: “tu prossimo”. È questa la via di realizzazione autentica di sé stessi e degli altri. La cura per il proprio decidere diventa cura per il decidere degli altri. Papa Francesco ci ricorda: «Quando la Chiesa chiama all’impegno evangelizzatore, non fa altro che indicare ai cristiani il vero dinamismo della realizzazione personale: Qui scopriamo un’altra legge profonda della realtà: la vita cresce e matura nella misura in cui la doniamo per la vita degli altri. La missione, alla fin fine, è questo» (Evangelii gaudium, 10).

Ditemi voi se non sono i giovani il volto missionario della nostra Chiesa!

Cosa cercate? Sono le prime parole che Gesù dice nel Vangelo di Giovanni e sono anche le ultime che dirà rivolgendosi alla Maddalena: “Cosa cerchi?” Noi troppo spesso incominciamo e finiamo con le nostre definizioni, Gesù inizia e finisce con una domanda. Una domanda che ti porta dentro, a interrogarti dentro, dentro i tuoi desideri più veri, più profondi: che cercate? Chi cerchi? È un verbo che racchiude tutta la vita. Tutto il Vangelo, tutta la vita. Dall’inizio alla fine del Vangelo, dall’inizio alla fine della vita, troviamo questo verbo, cercare. Fare della vita una ricerca insonne, mai conclusa. E Gesù con la domanda sembra rimandarti dentro, vuole che ti interroghi dentro, sul desiderio che ti abita, non quello superficiale.

In fondo, tu che cosa cerchi? Interroga il tuo cuore. È dietro questa ricerca che arriverai a Gesù.

Lasciati interrogare. Non temere le domande. È altro che dobbiamo temere. Dovremmo temere una società che funge da narcotico per la domanda, che la cancella, la copre. Soffocandola con la magia delle cose, con lo stordimento del rumore, con il luccichio del successo.

Cosa cercate è una domanda che non è rivolta alla tua intelligenza e nemmeno alla tua volontà. E la Parola penetra come una spada nel punto di congiunzione tra la tua anima e il tuo spirito. La fede è esperienza di incontro e solo chi ha incontrato Dio può parlare di Lui. Il nostro compito non è quello di trasmettere doveri ma passione per Dio, non è quello di comunicare ciò che abbiamo sentito dire di Lui ma ciò che abbiamo imparato da Lui.  Altri parlano perché hanno visto, noi non dovremmo parlare per sentito dire.

I giovani della Chiesa in uscita sono giovani che hanno il cuore in ricerca, che non si accontentano delle cose che gli vengono proposte ma si mettono in movimento alla ricerca del bello, del buono e del vero. Ogni cuore è alla ricerca di qualcosa, non esistono cuori fermi.

Sono giovani che decidono di uscire dalla sinagoga, dalle parrocchie, dalle nostre cose ordinate e liturgiche non perché non sono cose buone ma perché esse possano impastarsi di umanità e prendere l’odore della strada piuttosto che rimanere con il profumo dell’incenso. Per uscire bisogna saper stare dentro. Uscire non è allontanarsi ma avere la capacità di portarsi l’odore della propria casa addosso.

Sono giovani che sanno sorprendersi, che sanno affrontare gli imprevisti, perché per strada e in uscita non puoi permetterti di programmare. La strada non ha bisogno di essere ordinata ma attraversata.

La pedagogia di Dio è la pedagogia dell’attesa, ma anche quella della soglia: come educatori siete chiamati ad attuare la pedagogia della soglia; in altri termini: a seguire i vostri ragazzi sostando sul portone della loro coscienza, senza invaderla.

Mettersi accanto è: accogliere, accompagnare, discernere, tre parole che tessono le trame del sogno di Dio.

Ø  Accogliere è ospitare negli occhi. Non sempre ci pensiamo: io ospito negli occhi? Quando sei invitato da qualche parte, tu non entri in una casa: entri negli occhi delle persone. Noi abbiamo ristretto l’orizzonte dell’accoglienza pensando che accogliere sia dare cose materiali, che pure sono importanti, ma dimenticando che accogliere, prima di tutto, significa onorare la persona, il valore di quella persona, la ricchezza, a volte nascosta, di quella persona. E perché non guardare l’altro immaginando che lì, proprio lì risuona una parola di Dio per me, c’è qualcosa di Dio?

Ø  Accompagnare è mettersi accanto, mettersi in ascolto della parte più vera di chi ci è affidato fino a sentirne i battiti del cuore e camminare insieme. È incontrare il volto dell’altro, chiamarlo per nome. Accompagnare è esserci!

Ø  Discernere è vedere in profondità, fidarsi e scegliere. Scegliere cosa? Scegliere da che parte stare. Per saper scegliere con il cuore aperto allo Spirito Santo e ai fratelli. E Dio è lì dove il giovane vive, soffre e sogna, nella sua essenza più vera. Su quella strada, giorno dopo giorno, fissa gli appuntamenti che danno forma alla nostra esistenza. A noi è chiesto di fermarci, col rischio e la paura di sporcarci le mani e infangarci di terra, con il bisogno di cercare, anche dove c’è il buio, la notte, la disperazione…proprio lì, cercare l’azzurro di un cielo in cui fa capolino la speranza.

Queste tre dimensioni (accogliere, accompagnare, discernere) sono intessute di una quarta che le attraversa e le tiene insieme: l’ascolto.

Ascoltare è riuscire ad andare aldilà, è saper guardare il cuore, scorgere gli orizzonti nascosti dietro ai confini, tendere verso ogni persona che Dio mi pone dinanzi e farmi suo compagno, gratuitamente ed incondizionatamente. Non è sentire le parole. È entrare in quelle parole, o, forse ancora di più, entrare in chi sta parlando. È scoprire e riscoprire la gioia del cammino condiviso, percorrendo passi diversi ma lungo la stessa strada e verso la stessa meta.

L’ascolto da parte della Chiesa dovrebbe essere nell’ottica del “coltivare”: è impresa impegnativa e gravosa, chiede tempo, energie, forza e determinazione. Significa preparare il terreno, ararlo quando è necessario, concimarlo, irrorarlo. In questa immagine è nascosta la vera natura del discernimento consapevoli che tutti siamo, allo stesso tempo, terreno e agricoltori, bisognosi di cura e capaci di cura. Solo in questa reciprocità è possibile il reale ascolto e confronto che, nel tempo, si fa cammino. L’esercizio di questo reale ascolto lascia intravedere vie percorribili perché il dialogo sia possibile. Dovremmo sentire fortemente l’istanza dell’incontro con i giovani non automatica e scontata, che ci chiede di uscire dai luoghi abituali e istituzionali (oratorio, parrocchia, associazioni, ecc…) e, al tempo stesso, rendere aperti tali luoghi.

L’andare incontro in forza di un ascolto e per la cura dell’ascolto è parte integrante del discernimento che siamo chiamati a fare noi come Chiesa per accompagnare il discernimento del giovane. Nessuno può sostituirsi alla nostra responsabilità, non possiamo delegare altri, come nessuno può e deve sostituirsi al giovane.

Il sogno si concretizza, allora, nell’essere Chiesa che intercetta, che va incontro alle fragilità e alle singole storie. Una Chiesa libera, povera, una Chiesa che non ha paura di percorrere le strade difficili e strette, una Chiesa che sa gioire e condividere, una Chiesa che sa commuoversi e meravigliarsi davanti alle opere di Dio che si realizzano nel nostro quotidiano. Una Chiesa in uscita, samaritana. Una Chiesa, più che assertiva, discepola della fragilità.

Non la Chiesa che giudica, ma la Chiesa della compassione, la Chiesa che conosce la fatica, perché entra nelle case, non parla da fuori. Da come parla, soprattutto dei lontani, dei cosiddetti lontani, capisci se una Chiesa li conosce o no. Chiesa che, perché sorella e serva, conosce l’arte di rallentare il passo. Porta infatti nel suo cuore la fatica dell’ultima pecora, quella gravida e quella ferita.

Siamo chiamati a vivere nell’orizzonte di un sogno, a essere credenti inquieti, resi tali dal Vangelo, dall’incontro con il Signore, dall’urgenza che questo incontro fa nascere dentro ciascuno di noi.

Nelle parole del Papa (lettera ai giovani) e nel nostro cuore, mettendoci dalla parte del Signore, non possiamo non cogliere nel volto dei giovani l’immagine più viva del desiderio di Dio, del sogno di Dio, la direzione più percepibile del soffio del suo Spirito.

Tutto ciò comporta l’importanza di individuare modi di comunicazione che sappiano esplicitare ai giovani l’importanza di essere davvero protagonisti nelle loro scelte con consapevolezza, in un mondo che, sicuramente, ha assaporato, e continua tutt’ora a sperimentare, la povertà di una profonda crisi etico-sociale. In questo contesto, i giovani, i volti dei nostri giovani, sono già presenza profetica, ci chiedono cioè di scegliere e decidere non a partire da nostri eventuali interessi (sociali, politici, economici, di carriera) ma dal fine che è quello di una comunione possibile sulla terra, comunione tra gli uomini e comunione con Dio. Ci sentiamo in questa tensione profonda che dovrebbe essere la nostra pace e anche la nostra inquietudine?

La voce dei giovani è richiamo agli adulti ad una testimonianza di coerenza e responsabilità.

Sono convinto che la Chiesa, oggi più che mai, abbia tante cose da dire ai giovani e i giovani abbiano tantissime cose da dire alla Chiesa (cf. Giovanni Paolo II, GMG 1990). Solo in questo reciproco ascolto e dialogo sarà possibile un discernimento chiaro nel quale scoprire la novità e la bellezza della vita come vocazione. In questo senso la cura dell’interiorità e il criterio di prossimità devono diventare stile. «È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante». La volpe ricorda e consegna al Piccolo Principe il gesto che invera e fonda l’ascolto e la prossimità. Una verità che noi adulti abbiamo forse dimenticato, compito che purtroppo abbiamo disatteso. Discernere con i giovani significa dunque “perdere il tempo” cioè consegnarsi totalmente all’interiorità dei giovani, farsi prossimi nella capacità di tenere senza trattenere (cf. Gen 22) di accompagnare, permettendo però che si possa camminare da soli, condividere i sogni e vivere la realtà, abbracciare le possibilità, assumendo propri limiti.

Come possiamo lasciare che Gesù oggi cammini per le strade dei giovani e li incontri dove sono e come sono?

La domanda dell’uomo, e dei ragazzi in particolare è, oggi come sempre, la domanda di Pietro a Gesù: “Signore, da chi andremo?”. È una domanda di senso, di ricerca di strada, di sogni e di valori, di bisogno di assoluto prima che di finito: “Tu solo hai parole di vita”.

Domanda antica allora, ma in nuovi contesti, in un altro tempo.

Quale risposta allora possiamo dare oggi all’uomo, e soprattutto ai ragazzi, e prima ancora a noi stessi, al nostro bisogno di Alto e di Altro?

È un’antica relazione affettiva che mi porta a rivolgere questa domanda ad un altro uomo, un giovane, un figlio inquieto della Chiesa. Come risponderebbe oggi Francesco d’Assisi, lui figlio ingrato del benessere, che ha scelto la radicalità del dono e dell’abbandono?

La vita e la storia di Francesco mi direbbero: “Poco spazio ma tanto tempo ci separano dalla mia piccola Assisi. Oggi la Chiesa affronta la multiformità del globale. Bisogna guardare al lontano, alle lacrime versate dai poveri di tutto il mondo, schiacciati dalla forza del mercato globale, del mercato delle merci e degli uomini, rifiutati ed emarginati in quanto non consumatori. Uomini resi inutili, perché è scomodo il loro grido di giustizia. Che differenza col mercato di mio padre. Ed è proprio rifiutando quel mercato che ho scoperto la mia strada, la mia libertà, potete voi accettare questo?

Ero un giovane come tanti, molto simile per le mie intemperanze a molti giovani che oggi abitano le vostre comunità. La stessa attenzione all’immagine, l’identità confusa nei bagordi del mio gruppo di amici, la stessa voglia di spendere tutto ora e subito. Ma lo stesso bisogno di qualcosa di altro. Un tarlo penetrante nei miei pensieri, nelle mie necessità più vere e profonde. Vivevo nel benessere ma mi mancava la gioia. Tanti gioielli, ma le perle che hanno dato valore alla mia esistenza le ho trovate in un forziere diverso. E allora, come lo scriba, dal tesoro del Cristo prendete la perla della semplicità, della chiarezza, della trasparenza, della coerenza radicale tra la parola e la vita.”

Le parole di Francesco sono chiare: la parola e la vita, le parole di vita. L’uomo non sceglie gli intellettuali ed i farisei, non i potenti o i sacerdoti. Sceglie parole di Vita. Le parole e la vita assieme, legate indissolubilmente. Parole semplici ma non banali allora, chiarezza e coerenza di pari passo, che non è fare l’occhiolino a fette possibili di mercato spirituale, non è ammiccamento complice.

Francesco che bacia il lebbroso indica una strada. Sceglie da che parte stare. E non si mette solo accanto, ma bacia, in un gesto che è di amore totale e di coinvolgimento profondo in quella storia, nelle sue cause, nel suo futuro.

I giovani sanno ricordarci che il rinnovamento della pastorale per una Chiesa e un mondo dal volto vivo e vero, si fonda nella conversione oltre che delle strutture anche delle mentalità che abitano concretamente le strutture. La capacità di accompagnare non si improvvisa. Non si può aiutare ad incontrare il Signore e ad aver cura della familiarità con lui se non lo si è incontrato, ascoltato, seguito.

Quando i giovani si sentono realmente aiutati a riconoscere le tracce di Dio che cammina accanto e chiama a seguire, cercano tutte le vie perché questo incontro si esprima attraverso la vita concreta, dunque attraverso scelte per la propria vita accanto alla vita degli altri. In questo senso sono i giovani che chiedono alla comunità di riconoscere, sostenere e accompagnare i propri passi. Sono i giovani che ci chiedono di imparare a condividere realmente la vita, tutto quello che la promuove, tutto quello che occorre per vivere, tutto quello che umanamente la realizza.

Mi rivolgo ancora a Francesco, povero tra i poveri! Ho sempre pensato che la fede sia la scelta dell’umano contro tutto ciò che è disumano. E allora, come diceva Don Tonino Bello: “Non mi interessa sapere chi è Dio, mi basta sapere da che parte sta!”. E quando ho scoperto dove, aggiungo, devo avvicinarmi, andare incontro, fare il primo passo.

A te, Francesco, esperto del primo passo, chiedo come si fa. E fedele alla tua semplicità mi sento rispondere non con grandi parole, ma con l’esperienza di vita:

“Avevo tanta paura quando ho avvicinato il lupo, ma l’amore, altra perla autentica ed antica dallo scrigno dello scriba mi ha vinto. Non so se avete mai provato quel profondo struggimento che avvertiamo quando ci facciamo prossimi all’altro, con un amore puro, senza secondi fini, solidale, accogliente. Spesso doloroso e sofferto.

Quell’amore che è nostalgia di completezza, quell’amore che diventa medicina per la rabbia del lupo, come per la rabbia dei vostri giovani. Rabbia impotente ed autolesionista, tipica della loro età. È un amore che nasce dalla contrazione del sé, è un amore che nasce dal dolore di Dio, è quell’amore che ha fatto fare tanta strada al Cristo verso di noi. Lasciatevi afferrare da questo amore; la storia della gente di Gubbio ce lo dimostra: una mano tesa è meglio di una col bastone e l’ascolto salva più della paura. Non abbiate paura. Dio vi precede sempre e Cristo è il vostro compagno di viaggio.”

Grazie, Francesco, forse ho capito la lezione. Non c’è niente di nuovo, nessun terreno di sfida nuovo può essere aperto se non siamo in grado di accettare il terreno dell’antica sfida: quello dell’amore. Che non è il terreno della carità ipocrita o del permissivismo sfrenato.

E questo è il nostro compito e la nostra novità, la nostra antica sfida: educare all’amore.

Educarci ed educare, consapevoli del peso che ci portiamo dietro e dentro, coscienti che cadremo sotto questo peso sul nostro piccolo personale calvario, ma pronti ad alzarci con la speranza negli occhi e nelle gambe, verso altra vita, verso altri volti ed altre storie in cui rispecchiare e far crescere il nostro volto, la nostra storia. Ricordando sempre che l’educazione per poter essere vera ha un vincolo, e paradossalmente questo vincolo è la libertà. Bisogno imprescindibile e fine ultimo del nostro educare ed educarci.

Sono testimone e tocco con mano la primavera in tanti giovani. Certo, una difficile primavera, oggi, ma il mandorlo ha messo fuori le gemme, come dice il profeta (Ger 1,11).

I giovani sono una grande risorsa, pur vivendo mille fatiche: siamo chiamati a stare loro accanto, con umiltà, incoraggiandoli, accogliendo le loro istanze, accompagnandoli con credibilità. Esserci! Camminare insieme, osare insieme, alla sequela del Cristo. Sul passo degli ultimi. Scommettere sui giovani significa credere nell’inedito di un Dio che non invecchia mai.

È la cultura dell’attenzione. È abitare il tempo, imparando davvero a leggere la vita e a vivere la vita con gli occhi attenti di chi la vita la vuole cambiare.

Incontrando tanti giovani mi sono reso conto che sono portatori sani di missione: giovani ai giovani, la via più bella di trasmissione del Vangelo e di mediazione del volto giovane della Chiesa.

Dio custodisce nel cuore un sogno per ciascuno di noi. E Dio non sogna mai da solo: sogna con te e ti vuole protagonista del suo sogno.

Ricordo ancora le parole del maestro ed amico, don Tonino Bello, quando spesso ci ripeteva: “Solo chi sogna può evangelizzare”. Una Chiesa povera di sogni è una Chiesa smarrita, che fatica a trovare il senso e la direzione, rischiando di camminare in modo asfittico in una quotidianità senza slancio, fatta solo di riti e di abitudini.” Dico di più: una Chiesa che non sogna non è Chiesa, è solo “Apparato”. E soprattutto in questo particolare momento storico, la Chiesa non può non riappropriarsi del suo sogno e prendere il largo.

Dove dimori? Era chiaro che cercavano lui. La risposta è stupefacente. Ma come? Vi chiedo che cosa cercate e per tutta risposta mi dite … Rabbi, dove abiti?

Risposta stranissima questa dei discepoli, eppure affascinante e intrigante perché è come se dicessero: ci interessi tu, ci interessa stare un po’ con te, ci interessa vederti da vicino, ci interessa dove abiti con i tuoi pensieri, con le tue emozioni, con il tuo cuore, con i tuoi sogni.

E infatti, pensate, di quel giorno non è detto che Gesù fece chissà che cosa. Quali prodigi, quali azioni? Semplicemente videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui.

Pensate quale sconcerto provocherebbe, in una società come la nostra tutta sbilanciata sul fare, sul correre, sul produrre, uno che alla domanda “Che cosa è successo? Che cosa ha fatto?” risponderebbe: “Che cosa abbiamo fatto? Ci siamo fermati, ci siamo fermati insieme e ci siamo guardati.”

Il primato della persona, il primato del volto di Dio, del volto dell’altro.

Venite e vedrete. E non ci sono parole. Non si dice una parola dei discorsi della casa. Se ce ne sono stati.

Quale ribaltamento, del nostro modo di pensare, del nostro modo di intendere sia la fede, la nostra, sia la trasmissione della fede, del Vangelo.

Non c’è ombra di discorsi. I verbi sono: andare, vedere, rimanere.

Quasi il Signore dicesse: venite a vedere dove sto. Dalla casa capirete, passando qualche ora insieme capirete. Dimorando insieme capirete.

Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.

Nulla di organizzato, non ci sono parole: andarono e videro. E non è detto neanche che cosa videro.

Provate a rileggere l’episodio e osservate se non è vero che è tutto giocato sugli sguardi e non sulle parole. Il Battista: fissando lo sguardo su Gesù che passava. Gesù: osservando che essi lo seguivano. I due discepoli: andarono e videro. E alla fine, Gesù: fissando lo sguardo su Simone.

Ma chi, chi ci ha mai insegnato che la fede, la missione è innanzitutto una questione di sguardi?

Solo in questa prospettiva possiamo contemplare lo sguardo di Gesù che si è fissato su di noi e, di conseguenza, puntare i nostri occhi su di Lui che ci parla, che ci innamora, che ci tormenta, che ci redime. Aver contemplato Cristo fa nascere, inevitabilmente, l’urgenza di comunicare Cristo. Ma Gesù non può essere imposto. Può solo essere proposto. Gesù non si può annunciare con nessuna violenza verbale, “neanche con la forza della persuasione che mette all’angolo, e ti stringe, e non ti dà scampo. Lasciate sempre … ogni volta che annunciate Gesù, lasciate sempre a colui col quale parlate uno spiraglio dal quale possa scappare lontano da Lui. Così il suo incontro si tingerà di libertà …”

L’augurio che faccio a me e a ciascuno di voi qui presenti è che possiamo incontrarci tutti con i nostri giovani nella fiducia di chi sa rischiare e nello slancio di chi sa rispondere senza riserve.