Intervento di S.E. Mons. Santo Marcianò al secondo convegno
S.Ecc.Mons. SANTO MARCIANO’
Arcivescovo di Rossano-Cariati
Ti ho amato di amore eterno (Ger 31,3)
«Ti ho amato di amore eterno» (Ger 31, 3).
Carissimi fratelli e sorelle,
chi di noi, anche per un attimo, non ha colto nel suo intimo la forza di questa verità? Chi – diciamolo pure – potrebbe fondare la propria vita su Dio senza questa certezza? Ma chi, senza questa certezza, senza la certezza di un “amore eterno”, potrebbe veramente vivere la propria vita?
Una certezza che scavalca il dimostrabile: la certezza dell’amore; e un amore che scavalca il “misurabile”: un amore eterno. Un amore esagerato, smisurato, paradossale… Sì: di questa certezza l’uomo ha bisogno per vivere. E così è Dio, è l‘amore di Dio; così è Dio che è Amore.
Ringrazio il Signore, perché l’invito che oggi mi è stato rivolto mi permette di parlare ancora di questo Amore di Dio e di farlo con il cuore del Pastore. Nessun’altra ragione – sapete – abita il mio cuore di Vescovo, e forse nessun’altra certezza, se non questo Amore smisurato che dona tutto e tutto, in un certo senso, ottiene da noi, dal nostro semplice ma totale “Sì”. Quell’”amore eterno” dal quale ciascuno di noi si sente amato e mandato.
Ringrazio il Signore, dunque, e ringrazio e saluto ciascuno di voi.
Anzitutto Sua Eccellenza Monsignor Antonio Ciliberti, Pastore di questa Diocesi. Lo conosco da tanti anni, dagli anni in cui era Vescovo di Locri; mi sento da allora unito a lui da grande stima e affetto, da un legame particolare che, tra l’altro, sembra ancora più particolare ora che io sono chiamato ad esercitare il Ministero Episcopale nella sua Diocesi di origine, Rossano-Cariati.
Ringrazio tutti voi, carissimi amici del Movimento Apostolico: sacerdoti, seminaristi, consacrati, laici; vi saluto con tutto il cuore, nella gioia di vedervi così numerosi e nella speranza che questa gioia fruttifichi sempre più in quella grande opera di apostolato che la Provvidenza vi affida e affida ad ogni cristiano: essere “profezia dell’eterno amore”.
Vorrei, dunque, iniziare la nostra riflessione invitandovi a questa intima e forte domanda: «Siamo – noi presbiteri, seminaristi, consacrati… noi cristiani – consapevoli che è questo Amore a farci profeti? Siamo consapevoli che è di questo Amore che diventiamo profeti?»
«Ti ho amato di amore eterno».
Chi, nella Scrittura, si sente rivolgere queste parole e deve a sua volta rivolgerle da parte di Dio è, infatti, Geremia, un profeta particolarmente inascoltato. Un profeta che, in un certo senso, deve lo strazio della sofferenza che vive proprio al paradosso dell’esperienza forte di amore che fa. Non dimentichiamolo: è proprio Geremia ad aver detto a Dio quelle espressioni ardite e ardenti: «Mi hai sedotto, Signore e io mi sono lasciato sedurre. Mi hai fatto forza e hai prevalso» (Ger 20, 7).
Un innamorato, dunque. O, meglio, uno che si è lasciato amare ed ha sperimentato tutta la pienezza e, assieme, il vuoto che deriva dal lasciarsi invadere smisuratamente dall’amore. E che ha sperimentato che un amore così rende profeti: ed è dura essere profeti dell’amore. E’ bello ma è duro. Geremia ha vissuto questa “durezza”: e siamo chiamati ad essa anche noi oggi.
Sì, pienezza e vuoto, ecco l’amore di Dio; l’amore che ci rende profeti e profeti oggi. Se sei pieno dell’Amore che ti ha svuotato non puoi che parlare di questo. La profezia, lo sappiamo, nasce da un dono ricevuto; e l’amore è un dono: un dono – attenti – eterno!
«Ti ho amato di amore eterno»: questa Parola ci rende, senza dubbio, profeti scomodi, perché profeti di eternità in un mondo che ha assunto a regola di vita il fatuo, l’effimero e il relativo.
Penso, solo per un attimo, al dibattito che sta animando la politica e la cultura italiana riguardo ai diritti da riconoscere a quelle “unioni” che non sentono di assumere altra responsabilità se non la transitorietà di un vincolo affettivo genericamente inteso. E penso a quanti cristiani non trovano la ragione o la forza di difendere, dinanzi a questo, la verità bella del Vangelo.
Spesso proprio noi cristiani ci facciamo prendere dalla paura o dal falso rispetto di tutte le opinioni, anche perché siamo accusati di “scandalizzarci”. Ma il vero scandalo è il tradimento dell’amore, della verità dell’amore, dell’eternità dell’amore.
Dobbiamo chiederci quale possa essere, oggi, il significato della parola “eterno” e chiederci come pronunciarla con la nostra stessa vita.
Se andiamo solo un po’ indietro nel tempo, ci rendiamo conto che il concetto di “eternità” era naturalmente legato al concetto di “amore”. Se semplicemente pensiamo, ad esempio, a qualcosa come romanzi o film, specchio della cultura italiana di non più di 50 anni fa, notiamo che l’amore di coppia era, se non nella realtà, almeno nelle aspirazioni legato al “per sempre”.
Non intendo, evidentemente, esaminare questa tematica. Ma parlando di amore eterno credo sia indispensabile considerare quanto l’aver appannato il concetto di “eternità” dell’amore abbia potuto contribuire a tentare di “spegnere” la sete di infinito che sta dentro il cuore dell’uomo, rivoltando il senso stesso dell’umanità.
Mi colpisce una famosa riflessione del Concilio Vaticano II: «In verità, gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano a quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo. E’ proprio all’interno dell’uomo che molti elementi si contrastano a vicenda. Da una parte, infatti, come creatura esperimenta in mille modi i suoi limiti; dall’altra parte si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato a una vita superiore»[1].
Solo l’amore, carissimi fratelli, è il paradosso che risolve tale conflitto. Un conflitto che, lasciato a se stesso, porterebbe la creatura – e di fatto lo fa – a ribellarsi alla propria creaturale umanità, a ribellarsi a se stessa, a ribellarsi alla natura, a ribellarsi al Creatore.
Sì, forse proprio questa sete di infinito, se non è riconosciuta ed incanalata, arriva a sovvertire la stessa essenza umana, a sconvolgerne la dignità, a rasentare l’autodistruzione. L’uomo che non accetta di “essere” oltre il visibile e il misurabile, oltre il tempo e la storia… cerca forse di “fare” oltre il visibile ed il misurabile, oltre il tempo e la storia; egli può arrivare, così, a trasformare la propria vocazione alla trascendenza in tentativo di onnipotenza: e il fallimento dell’onnipotenza in disperazione.
Solo l’amore, dicevamo, riesce realmente a risolvere tale conflitto. E lo fa in quanto mette insieme due coordinate essenziali ma apparentemente inconciliabili: il limite e l’eterno. Per riflettere su quanto dico proverò, dunque, a sviluppare tre punti:
1. Anzitutto, l’amore come limite.
2. Poi l’amore come ciò che vince il limite, perché è infinito, eterno
3. E, infine, una domanda: «dove limite ed eterno si incontrano»?
1. L’amore è limite
Uso, naturalmente, la parola “limite” non con un’accezione negativa o riduttiva. Il limite è sì ciò che blocca ma, prima di tutto, è ciò che delinea, che imprime una direzione, ciò che conferisce una fisionomia.
Il “limite” dell’amore, carissimi amici, è esattamente l’uomo!
L’uomo è, anzitutto, il volto dell’amore. L’amore vive le sembianze dell’uomo. L’amore vive nell’uomo e ne assume il vissuto, la carne, la storia. L’amore entra nelle emozioni, nelle passioni, nelle fragilità dell’uomo; ma entra anche nell’unicità creativa di ogni persona umana. L’amore riceve dall’uomo il limite della sua individualità personale.
E’ esperienza, questa, molto reale per noi. Noi sperimentiamo di costituire un “limite” all’amore, con i nostri stessi limiti. Ma quegli stessi limiti sono un volto per lo stesso amore. Noi siamo il limite per l’amore che doniamo: lo doniamo con la nostra modalità, personalità. Lo esprimiamo con il linguaggio della corporeità; lo affidiamo alla nostra libertà. E siamo un limite per l’amore che riceviamo.
Sì, perché l’amore di colui che dona trova un limite anche in colui che l’amore riceve. Io non posso, ad esempio, inventare un amore disincarnato dalla persona che amo. Il mio amore ne assume la storia e la carne, il vissuto; si orienta ai suoi bisogni, alla sua realtà, alla sua crescita. Si offre alla sua vita e si fa educare dall’altro. Lo stesso limite del mio amore è trasformato dal limite dell’altro. Io non posso amare l’altro se non per come l’altro accetta di farsi amare. Non posso voler plasmare l’altro a mia misura, non posso non partire dalla realtà dell’altro, seppure sempre guardando alla sua globalità.
Non posso non difendere, promuovere, rispettare e custodire l’altro con il mio amore. E, a volte, non posso non accettare i limiti che l’altro sembra imporre alla “qualità” del mio stesso amore.
Mi rendo conto che il nostro parlare può apparire un gioco di parole… ma credo che comprendiate benissimo il cuore di quanto andiamo meditando. L’amore, cioè, rivela la sua eternità, infinità, proprio riversandosi nell’apparente finitezza dell’essere umano. E solo così! Dire amore è dire “dignità umana”, grandezza di umanità: nel limite e nonostante il limite. E la percezione della dignità umana parte dalla percezione della propria dignità. Parte dai propri limiti.
Ma proprio per la percezione della propria dignità è necessario il riconoscimento dell’eternità di un dono ricevuto che ci precede, ci trascende e ci supera; in un bellissimo passo del Dialogo della Divina Provvidenza, Santa Caterina da Siena dice a Dio: «chi fu cagione che tu ponessi l’uomo in tanta dignità? L’amore inestimabile col quale riguardasti in te medesimo la tua creatura e ti innamorasti di lei; e però la creasti per amore»[2].
Pensiamoci bene: se l’amore di sé, il rispetto di sé, la certezza della propria dignità non si poggiasse su questa sorta di “soprannaturale”, sarebbe legato esclusivamente ad un’autocompiacimento, ad una sorta di egoistico narcisismo.
Solo questa certezza porta a custodire la dignità unica ed irripetibile di ogni persona umana. Lo spiegava bene Giovanni Paolo II nella sua splendida Enciclica Evangelium Vitae: «solo un amore vero sa custodire la vita»[3], egli ribadiva, riferendosi, peraltro, all’attuale banalizzazione della sessualità e all’importanza della formazione all’amore e alla castità. Sì, solo nella verità dell’amore, nella purezza dell’amore, nell’eternità dell’amore si ritrova il “grembo” adatto al rispetto dell’uomo.
2. L’amore è eterno
Ecco che il ragionamento sull’uomo porta allora come necessaria conseguenza la certezza dell’eternità dell’amore. Riconoscere, infatti, questo principio trascendente di dignità nell’umanità di ogni uomo significa reputare l’uomo degno di amore, sempre e comunque; di un amore che non può porre condizioni di nessun genere, neppure quella del tempo.
«Appena l’amore si desta veramente alla vita – scrive von Balthasar -, l’attimo temporale vuole essere superato in una forma di eternità. Amore a tempo, amore ad interruzione non è mai vero amore. Persino l’egoismo erotico – egli spiega con un’acuta osservazione – non può far altro che giurare a se stesso “eterna fedeltà”, e nell’attimo è proprio del suo godimento il fatto di crederci veramente a questa eternità. Tanto più l’amore autentico vuole durare oltre il tempo!»[4].
Amare l’uomo “a tempo” equivarrebbe a mettere delle condizioni all’amore; e quando si iniziano a mettere delle condizioni all’amore, inevitabilmente se ne mettono delle altre… Così – cosa che stiamo toccando con mano sempre più fortemente – si considera la persona solo parzialmente degna d’amore; e, alla fine, si arriva a dividere, in un certo senso, l’umanità in persone degne e non degne di amore.
Capisco che quanto dico può sembrare forte; ma ditemi se non è così. Ditemi se – lo accennavamo prima – non è in questione, oggi, la difesa, anzi il riconoscimento del diritto fondamentale dell’essere umano: il diritto a vivere e ad essere amato, in qualunque condizione.
Drammi quali l’aborto, l’eugenetica, l’eutanasia – li chiamo drammi perché sono convinto che di questo si tratta, quali che siano le condizioni che li provocano, e che sono solo il punto emergente di una problematica molto più profonda – … affondano le loro radici nel rifiuto dell’essere umano di amare senza condizioni. L’attacco all’intangibilità della dignità umana arriva non solo ad uccidere la vita ma anche l’amore. Difendere e promuovere la vita significa, dunque, difendere e promuovere la fondamentale vocazione all’amore di ogni uomo, quella vocazione che viene da Dio; significa educarlo a realizzare questa vocazione, fidandosi della sua capacità di amare senza chiedere nulla per sé.
Cari amici, l’uomo è veramente fatto per amare senza condizioni: quando mette delle condizioni, anche semplicemente quella del tempo, non ritrova più se stesso e precipita nell’infelicità.
Ma – ci viene spontaneo adesso chiederci – come conciliare tale eternità con il nostro limite umano che abbiamo visto essere così reale, concreto?
Paradossalmente, è proprio nostro limite che ci conduce a dover ammettere la verità di un Amore Eterno che è Dio. Sì, è straordinariamente vero quanto Benedetto XVI ci insegna nella sua prima Lettera Enciclica: «Tra l’amore e il Divino esiste una qualche relazione: l’amore promette infinità, eternità – una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere»[5].
Dire “Divino”, cari amici, è dire infinito, eterno. Se è così, ne deriva che l’appannarsi dell’eternità dell’amore porta con sé non solo uno stravolgimento del senso dell’umanità ma anche uno smarrimento del senso di Dio!
Ma la Parola di Dio risuona fedele per ogni uomo: «Ti ho amato di amore eterno»…
Nella Bibbia, il popolo che si sente ripetere queste parole tramite il profeta vive una fase particolare della sua esperienza di fede. Leggiamo il brano:
«Ha trovato grazia nel deserto
un popolo di scampati alla spada;
Israele si avvia a una quieta dimora.
Da lontano gli è apparso il Signore:
Ti ho amato di amore eterno,
per questo ti conservo ancora pietà.
Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata, vergine di Israele» (Ger 31, 1 – 4).
Questo è il popolo che vive il cammino della conversione: sì, l’amore eterno esige la nostra conversione; la riedificazione di Israele, che è opera dell’Amore eterno di Dio, non avviene senza l’adesione della libertà umana.
Lo ripeto spesso nelle mie omelie, a partire dalla prima che ho fatto per l’Ingresso in Diocesi, e ho voluto ribadirlo nella mia prima Lettera Pastorale: l’uomo deve essere consapevole che, sempre, egli impegna la propria libertà nella sequela di qualche maestro. La dinamica della conversione esige una profonda educazione della libertà umana. Non possiamo, cioè, non chiederci se veramente stiamo seguendo Cristo. Non possiamo – focalizzando il tema di oggi – non riflettere su quali maestri di amore scegliamo.
La conversione, l’amore la richiede sempre. Sì, perché una volta accolto, questo amore rende la nostra vita una profezia di eternità.
Di questa dimensione “profetica”, che ci chiama alla conversione, si potrebbero evidenziare certo molti aspetti. Ne colgo alcuni, che voglio provare a leggere fra le righe della stessa Deus Caritas Est, e che immettono il cristiano nell’esperienza dell’amore eterno aiutandolo, da una parte, a superare se stesso e, dall’altra, ad accogliere la maniera di amare di Dio.
– Per penetrare il mistero dell’eternità dell’amore bisogna anzitutto «non lasciarsi sopraffare dall’istinto»[6]. Esaminando il rapporto tra eros e agape, il Papa ci ricorda che un amore eterno non si può fondare esclusivamente sugli istinti o impulsi che, anche se di per sé positivi, da soli, tuttavia, si esauriscono nell’immediato. Pensiamo a quanto forte sia il contenuto di questa profezia, oggi; in un tempo in cui le relazioni umane si fondano sull’assolutizzazione di alcune dinamiche istintuali legate alle sensazioni e alle emozioni, ma anche su istinti di sopraffazione, potere, sfruttamento…
– Amare in modo eterno, poi, significa anche perdonare alla maniera di Dio. Quanto è importante sottolinearlo! E’ forte e bella l’espressione usata nell’Enciclica per spiegare «l’agire imprevedibile e in un certo senso inaudito di Dio»: è un agire che, sulla croce, rivela come l’amore eterno di Dio sia «il volgersi di Dio contro se stesso»[7]. Il perdono appare una dinamica sempre più dimenticata, anche dentro legami che si definivano inizialmente d’amore. Se non si ammette la necessità del perdono, non si può neppure ipotizzare l’eternità dell’amore.
– Anche l’uomo deve “volgersi contro se stesso”; deve superare se stesso e non può farlo fidando sulle sue sole forze. L’eternità dell’amore non si improvvisa e non si può fondare solo sul volontarismo. Per entrare nel mistero dell’eterno amore abbiamo bisogno di entrare nel mistero della preghiera. La preghiera è la vita dell’anima ed è l’anima dell’amore. Se è vero che la preghiera è realtà che non ci porta solo all’imitazione ma anche all’identificazione, è lì che noi ci identifichiamo con l’Amore, con quel Dio Amore che è il “Tu” della nostra preghiera. Ma tutto questo richiede un lavoro paziente e continuo. Richiede fedeltà e amore. Richiede impegno: un impegno – direi ricalcando il nostro tema – che duri per l’eternità. Come l’amore, infatti, la preghiera non può essere “a tempo”.
– L’eternità dell’amore, infine, si vive pienamente nell’Eucaristia, in quella «“mistica” del Sacramento che si fonda nell’abbassamento di Dio verso di noi» e che «ha un carattere sociale, perché nella comunione sacramentale io vengo unito al Signore come tutti gli altri comunicanti»[8]. Non c’è nulla di “spiritualeggiante” in questa affermazione ma, piuttosto, l’indicazione di un amore straordinariamente “povero”, quello che Cristo ci dimostra, ci dona, ci chiede. La povertà è necessaria all’amore: per amare, cioè, poveri o si è o si diventa! «L’amore vero – spiega von Balthasar – rinuncia radicalmente e fondamentalmente a tutto»[9]. E rinuncia a tutto per “abbassarsi”, come Dio, verso i fratelli. Dimenticando se stesso, l’amore si proietta al “per sempre”.
3. La Chiesa è amore
Il cenno all’Eucaristia ci permette, dunque, di avviarci a concludere la nostra riflessione, tentando di rispondere alla domanda che ci eravamo posti come terzo punto: «dove è l’incontro tra limite ed eterno»? La risposta credo sia: “nella comunione”. La risposta, carissimi, è in quel Mistero di comunione che si chiama “Chiesa”. La Chiesa è comunione, è unità. Di questa unità siamo chiamati a dare testimonianza, per profetizzare l’eternità dell’amore dentro i limiti dell’umano, per realizzare la nostra vocazione cristiana.
Lo aveva capito bene San Paolo, il quale ha vissuto la conversione all’Amore eterno di Dio che gli si è rivelato in Gesù. Scrive così agli Efesini: «comportatevi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto… cercando di conservare l’unità» (Ef 4, 1. 3). L’amore, la comunione, l’unità. Ecco la dignità della nostra vocazione: essere «un solo corpo e un solo spirito»; avere «una sola fede e una sola speranza»; vivere il mistero di «un solo battesimo» (Ef 4, 4 – 5).
Questo amore eterno, senza il quale l’uomo non può vivere, è il tessuto vitale e costitutivo di ciò che siamo noi qui, oggi, in quanto battezzati e in quanto cristiani: la Chiesa! Sì, fratelli carissimi, la Chiesa. La Chiesa si fonda sull’amore e la Chiesa “è” amore, “è” comunione, “è” unità.
Mi coinvolge e mi commuove particolarmente pronunciare queste parole e richiamare questa verità dentro il mio Ministero Episcopale: un Ministero che, come vi dicevo, è prima di tutto a servizio di questa comunione, perché è esperienza viva di questo Amore.
Ma come comportarci, secondo la Parola, per conservare l’unità che ci fa degni della nostra vocazione? «Con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandoci a vicenda con amore» (cfr Ef 4, 2).
– L’”umiltà”: virtù di chi è consapevole che quanto è o possiede viene da un dono immeritato, unico, splendido.
– La “mansuetudine”: quella docilità che, per amore e per fiducia, ci rende obbedienti.
– La “pazienza”: cioè il coraggio di saper aspettare e sperare infinitamente in chi si ama.
– E, infine, la capacità di “sopportarsi a vicenda”: di portarsi l’uno sulle spalle dell’altro, con immenso amore.
L’invito dell’unità è da Paolo, e oggi da me, rivolto a tutti voi; alla vostra comunità, sulla quale la Chiesa si edifica: nella comunione con i vescovi, con le comunità parrocchiali, con le comunità religiose, con le comunità che fanno capo ai diversi movimenti ecclesiali…
Ed è rivolto alle famiglie, alle vostre famiglie; ad ogni famiglia, “piccola Chiesa”, che la Chiesa, particolarmente in questo tempo in cui essa è così minacciata nella sua bellezza e dignità, ha il compito di custodire e dalla quale ha il dono di sentirsi custodita.
Dice la Familiaris Consortio che compito della famiglia è «custodire, rivelare e comunicare l’amore quale riflesso vivo e reale partecipazione dell’amore di Dio per l’umanità e dell’amore di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa»[10]. Il Signore stesso ha affidato alla famiglia il dono e il compito di essere riflesso del Suo eterno amore, dell’Amore che abita nel Cuore del Mistero Trinitario. La banalizzazione del legame coniugale mina alla base il significato dell’amore umano e oscura la contemplazione dell’amore Divino.
Vorrei che le famiglie, quelle cristiane in particolare, comprendessero a quale grande testimonianza d’amore sempre – ma soprattutto oggi – sono chiamate. Testimonianza, mi rendo conto, a volte eroica, ma indispensabile: testimonianza di un amore umano e totale, esclusivo e fedele, fecondo e inserito in Dio[11].
Sì, carissime famiglie presenti: sento, con il cuore preoccupato e grato del Pastore, di dirvi che potete e dovete considerare la fedeltà della risposta alla vostra vocazione come il servizio primario che la Chiesa si attende da voi. E’ attraverso l’amore coniugale e familiare, è dentro questo amore che Dio vi chiama all’evangelizzazione e alla carità. Perché la famiglia è la prima e preziosissima comunità per ogni persona umana, e a tutti noi ha insegnato a vivere quel quotidiano tessuto della comunione che rende eterno l’amore.
Conclusione
Carissimi amici,
per essere profeti dell’eternità dell’amore dobbiamo essere strumenti che si sforzano:
– di accettare se stessi e l’altro, per proclamare la grandezza ed intangibilità della dignità di ogni persona umana che, sempre e comunque, è degna del nostro eterno amore;
– di superare se stessi, attraverso un cammino di continua conversione e preghiera, aperto ad accogliere l’amore eterno di Dio, per amare e perdonare alla maniera di Dio;
– di offrire se stessi, secondo una logica “eucaristica”, per orientare sempre più in una prospettiva di comunione e di eternità il cammino personale e comunitario nella Chiesa.
Siamo partiti dall’esperienza di Geremia, un profeta che ci richiede di essere profeti. E il profeta è l’uomo di Dio ma anche l’uomo del popolo. «Il profeta – scrive Ravasi – è l’interprete della storia che vive con la sua comunità… Anche se le personalità umane e le caratteristiche dei singoli profeti sono molteplici e differenziate, tutti si ritrovano nella comune fedeltà al proprio tempo storico e nell’adesione totale al destino della comunità di cui sono parte»[12].
La comunità di cui siamo parte è la Chiesa tutta. La Chiesa, oggi, è il nostro popolo, la nostra gente. La sfida della profezia ci richiede di superare, con l’aiuto di Dio, limiti personali, confini di interessi angusti, orizzonti parziali… per testimoniare, anche nel servizio e nella collaborazione, che è possibile l’eternità dell’amore. Nella Chiesa – lo ripeto spesso – non c’è spazio per quell’individualismo che soffoca il cuore umano, togliendo alla persona il respiro di eternità.
Il profeta, prima di parlare, ama il suo popolo e lo porta nel cuore e nella preghiera. Portiamoci nel cuore gli uni gli altri, davanti a Dio: e questa comunione ci permetterà di toccare l’Eterno!
E’ la direzione che, semplicemente, vi indico; è l’augurio che vi faccio; è il Dono che invoco dall’Eterno Amore per voi, per me, per la Chiesa tutta, per il nostro popolo; per ogni uomo che, anche se non lo sa, solo dell’Eterno Amore ha bisogno per vivere.
E così sia!
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Gaudium et Spes, 9 [2] S. Caterina da Siena, Il Dialogo della Divina Provvidenza. Cantagalli, Siena 1994, p. 53 [3] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium Vitae, 97 [4] Hans Hurs von Balthasar, Gli stati di vita del cristiano. Jaca Book, Milano 1995, p. 34 [5] Benedetto XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas Est, 5 [6] Ibidem [7] Ibidem, 12 [8] Ibidem, 13 - 14 [9] Hans Hurs von Balthasar, Gli stati di vita del cristiano…, p. 49 [10] Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Familiaris Consortio, 17 [11] Cfr Paolo VI, Lettera Enciclica Humanae Vitae, 9 [12] G. Ravasi, Il Dio vicino. Mondadori , Milano 1997, p. 215