Intervento di S.E. Mons. Mario Toso al V convegno
S.E. REV.MA MONS. MARIO TOSO
Segretario Pontificio Consiglio Giustizia e Pace
(Roma, Auditorium della Conciliazione, 24 Novembre 2010)
GIOVANI: TESTIMONI NELLA CARITÀ E NELLA VERITÀ
Riflessioni alla luce della Caritas in veritate
Mons. Mario Toso, sdb
Dio invia i giovani a testimoniare la verità e la carità nel sociale
Pochi mostrano una convinta fiducia nei giovani. Dio ne ha più di tutti. Egli chiama ogni persona, ogni giovane a vivere – come ci dice Benedetto XVI nella sua ultima enciclica sociale – secondo carità nella verità, ossia secondo un’esistenza più che umana, divina! Infatti, la Carità e la Verità di cui ci parla primariamente il Pontefice, sono la vita di Gesù Cristo e non tanto la «Caritas diocesana» pur importante, e nemmeno la verità di tipo matematico (1 + 1 = 2).
Gesù non solo dona a noi se stesso, come carità e verità, ma anche ci invia ad annunciarle e a testimoniarle. Cari giovani, Dio ha, dunque, un grande progetto su ciascuno di noi, pensa in grande, investe molto – ci manda Suo Figlio, perché viva con noi e noi viviamo con Lui, di Lui -, per essere nel mondo annunciatori e testimoni, apostoli della Sua carità/amore e della Sua verità in quanto uomo nuovo, nuovo Adamo.
Solo se siamo Suoi, se dimoriamo in Lui, riusciremo a trasformare, anzi a trasfigurare, la nostra e l’altrui esistenza.
1. Carità nella verità: una condizione di esistenza
L’incipit della Caritas in veritate (=CIV) indica una via di conoscenza, ma soprattutto una condizione di esistenza, mediante cui possiamo accedere ad una conoscenza più adeguata ed a una vita buona, virtuosa.
Solo se viviamo in, con, per Gesù Cristo, possiamo essere fruitori e portatori di un nuovo pensiero circa la famiglia, l’economia, la società – Paolo VI e Bendetto XVI ci ricordano che, tra le principali cause del sotto-sviluppo, c’è la carenza di sapienza, di pensiero, di una sintesi umanistica orientatrice… -, circa lo sviluppo integrale dei singoli e dei popoli. Solo se possediamo la sua verità, i suoi sentimenti, il suo amore per Dio e per l’umanità, per il vero bene delle persone, possiamo conseguirli con determinazione e perseveranza.
L’unione a Gesù, l’accettazione di quanto Egli dice, spalancano la mia mente non solo a un sapere razionale ma anche a un sapere super-razionale (non irrazionale).
Vivendo in Gesù, avendo fiducia in Lui, accogliendo la sua parola, la nostra intelligenza si apre a un sapere più che umano, il sapere di Dio su Se stesso e sull’uomo. Un tale sapere non esclude i vari saperi umani, ma li trascende, li inscrive in un orizzonte più vasto, onnicomprensivo, risignificandoli in certo modo, entro una sintesi di sapere superiore.
Il punto di vista offertoci dalla rivelazione di Dio ci pone, dunque, sul punto più alto del sapere, che la ragione non può raggiungere con le sue sole forze. Da lì si abbraccia l’orizzonte più ampio possibile, comprendente gli altri orizzonti più piccoli, corrispondenti ai saperi umani. Mentre è collocata entro il sapere rivelato, la ragione anziché esserne schiacciata o diminuita nelle sue potenzialità, viene irrobustita e sollecitata a trascendere se stessa. La ragione umana, già dotata della capacità di conoscere globalmente la realtà – e, quindi, in grado di attuarsi secondo i molteplici gradi del sapere umano, a cominciare da quello sensitivo e empirico, per giungere a quello intuitivo, speculativo e discorsivo – viene guarita da eventuali cecità e, inoltre, è sfidata ad esplorare tutto lo scibile donatole da Dio.
Ebbene, in un contesto di fede, la ragione è spinta ad esercitarsi secondo tutte le sue modalità, sicché può pervenire a conoscere la persona, la finanza, la tecnica, l’economia, la politica, lo sviluppo, attraverso una sintesi armonica di saperi, e quindi non solo dal punto di vista quantitativo e materiale, ma anche dal punto di vista qualitativo; non solo dal punto di vista dell’apparenza fenomenica, ma anche dal punto di vista del loro essere umano e etico. Insomma, è possibile avere una conoscenza più completa, non unidimensionale, bensì pluridimensionale delle persone e delle cose, sulla base di una sintesi organica dei saperi, che consente di superare la settorialità e la frammentarietà.
L’unione a Gesù, la comunione con Lui, l’amarLo sopra ogni cosa, con tutto il cuore e la mente, con tutto il nostro essere, consente, inoltre, di amare la famiglia, il lavoro, la finanza, l’economia, la politica, lo sviluppo integrale – primo principio morale – secondo la loro giusta valenza, ossia secondo una corretta scala di beni-valori, per cui essi non sono idolatrati, ma nemmeno sottodimensionati. L’unione della mia mente e del mio cuore a Gesù – egli è il mio Tutto, Colui al quale riconosco ed offro il primo posto, il primato rispetto a tutto il resto – mi consente di non assolutizzare, ad esempio, il profitto, la tecnica (tutto ciò che essa mi consente lo faccio, anche se produco mostruosità…), il potere, ma di viverli subordinati al bene delle persone, al bene di tutti.
Detto diversamente, la fede in Gesù anziché essere fonte – come sostengono le culture secolaristiche di oggi – di oscurantismo, di ignoranza, è, invece, all’origine di un sapere più autentico, completo; di una vita morale più corretta, di una vera civiltà. È proprio così che Benedetto XVI sfida e smaschera la menzogna della cultura secolaristica e immanentistica odierna, che tende ad emarginare dalla cultura e dalle istituzioni Dio. In particolare, la CIV, sulla base delle premesse già illustrate, propone: a) un concetto di sviluppo che supera quello proposto par esempio da Amartya Sen e, inoltre, b) aiuta a superare le dicotomie dell’etica postmoderna, costruita sulla premessa dell’etsi Deus non daretur di Grozio.
a) Secondo Amartya Sen, lo sviluppo non è dato solo dall’universalizzazione di risorse economiche, di mezzi tecnici, di istituzioni culturali, di innovazioni, di saperi, di know how, ma bisogna globalizzare anche istituzioni no market, in particolare capabilities, ossia opportunità di scelta. Ralf Dahrendorf, a sua volta, parla della necessità di globalizzare chances di vita. Secondo la CIV, lo sviluppo non è dato solo dalla globalizzazione di capabilities o di chances di vita, anche di questo, ma primariamente da scelte buone, le quali possono essere compiute solo se si è in possesso del telos umano (un insieme di beni ordinati dall’amore a Dio). In sostanza, secondo la CIV, occorre globalizzare la vita buona. Ma come si possiede la vita buona, come si accede al telos umano? Grazie ad una morale che abbia come suo fondamento Dio. Occorre, quindi, “globalizzare” Dio, Gesù Cristo. In realtà, in forza della creazione e dell’incarnazione del Verbo, essi lo sono già. I semi del Verbo sono ovunque, in ogni popolo ed in ogni cultura. Si tratta, allora, di indicarli, di annunciarli e di testimoniarli. A questo punto si comprende, allora, il significato pieno dell’affermazione centrale della Populorum progressio, fatta propria da Benedetto XVI: «L’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo» (CIV n. 8).
b) La CIV, aiuta a superare le dicotomie della cultura postmoderna, nihilista, immanentistica… Nella CIV, sono censite le principali aporie dell’etica postmoderna. Non sono enumerate per una specie di civetteria intellettualistica, bensì per indicarne la via del superamento. Quali sono? Come propone la CIV di superarle?
Quali sono? Sono, ad es., le separazioni tra etica e tecnica, etica ed economia e giustizia sociale, etica e famiglia, etica e finanza, etica e politica, etica della vita ed etica sociale.
Come superarle? Esse possono essere superate se la vita delle persone non viene considerata “a scomparti”, come se da una parte esistesse la persona con i suoi desideri e i suoi fini, e dall’altra esistessero l’etica, l’economia, la finanza, la politica, con obiettivi antitetici a quelli della persona. Per la CIV, l’attività tecnica, l’economia, la finanza, la politica sono attività della persona, dalla persona e, pertanto, devono avere come fine la persona, ossia debbono servire alla sua crescita umana in pienezza. Tali attività vanno, dunque, organizzate in modo che non si pongano al posto delle persone, strumentalizzandole, riducendole a mezzi, cose, semplici merci.
Ciò come può avvenire? Attraverso il possesso di una giusta scala di beni/valori, la quale è possibile, come già accennato, solo se si pone alla base delle propria condotta il riconoscimento del primato di Dio, dello spirituale. Detto altrimenti: solo se organizzo ed oriento la mia condotta, le mie scelte dei vari beni, sulla base dell’amore a Dio, Sommo Vero, Sommo Bene, il mio Tutto.
2. Protagonisti non solo della trasformazione dell’umano, ma della sua «trasfigurazione»
La CIV chiama ad un lavoro più che semplicemente umano. Essa invita a forgiare l’umano – cultura, strutture, ambienti di vita, attività – in termini trinitari, perché la persona è stata creata a immagine di Dio-Amore, comunione di Persone, che sono tali – Padre, Figlio, Spirito – grazie al reciproco riceversi e donarsi. Le persone umane, afferma la CIV, sono esseri relazionali. Esse si compiono donandosi mutuamente, disinteressatamente. La finanza, l’economia, la politica sono attività veramente umane se vengono organizzate in termini relazionali, ossia come attività dove si vive fraternamente, secondo il principio del dono e la logica della gratuità.
Secondo Benedetto XVI, che cosa significa, in concreto, incrementare la dimensione della fraternità nell’economia, nel mercato e nell’impresa? Significa, forse, vendere la propria azienda e destinare il ricavato ai poveri? La CIV indirizza solo verso questo? O non, piuttosto e principalmente, ad essere protagonisti responsabili del proprio e dell’altrui bene, tramite creatività, operosità «imprenditoriale», offrendo agli altri opportunità stabili di crescita?
Secondo la CIV, significa, innanzitutto, vivere il mercato, l’impresa non solo quali luoghi in cui si attua il principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, ma anche quali istituzioni umane in cui le persone si incontrano, stipulano contratti, scambiano beni e servizi, sulla base di una fiducia reciproca generalizzata, gettando lo sguardo oltre la mera dimensione economica, scorgendo nell’altro un proprio simile, un «aiuto», un essere che non mi è necessariamente nemico, che sono chiamato a non ingannare, a non sfruttare (ultimamente la finanza, pur di fare profitto, ha immesso nel mercato prodotti «menzogneri»), ma a servire con la mia professionalità e il mio comportamento etico, con la passione che pongo nel mio lavoro, con l’orgoglio di offrire sul mercato il miglior prodotto a prezzo accessibile, perché i propri fratelli meritano il massimo.
Quello che desidera far capire la CIV è che i protagonisti del mercato non agiscono solo in quanto soggetti economici, ma anche nella loro qualità di persone anzitutto, le quali sono inserite in una trama di relazioni sociali più vaste, come la famiglia, la propria Nazione, il mondo. Operano nel mercato come esseri concreti e storici, non svestiti del loro essere figli di Dio, di quelle qualità umane e divine di solidarietà e fiducia, che sono indispensabili al mercato stesso per espletare la propria funzione economica. Proprio per questo, la CIV sollecita a pensare al mercato – specie in un momento storico in cui si sta registrando un deficit di fiducia tra persone e istituzioni finanziarie e in cui sono apparse con maggior evidenza le interdipendenze tra i settori economici – come un luogo in cui, oltre alla giustizia commutativa, va vissuta la giustizia sociale intesa soprattutto come giustizia contributiva e non solo distributiva, ossia giustizia che incrementa le forme di fiducia reciproca e di solidarietà sulla base del dono, generoso e continuo, di se stessi. Senza queste espressioni di un particolare senso di fraternità e di dedizione, al mercato viene a mancare quella coesione sociale che gli è necessaria se vuol essere se stesso (cf CIV n. 35).
Secondo la prospettiva suggerita dalla CIV, è naturale che il mercato – come in effetti già avviene in non pochi casi – non sia più luogo di sopraffazione del forte sul debole o ambiente di rapporti antisociali, bensì sfera dalle relazioni improntate ad amicizia, a solidarietà, a reciprocità (cf CIV n. 36). «La grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è un’esigenza dell’uomo nel momento attuale, ma anche un’esigenza della stessa ragione economica. Si tratta di un’esigenza ad un tempo della carità e della verità» (CIV n. 36).
Il principio di fraternità dev’essere sale della vita dell’imprenditore, del manager, delle relazioni interne alle imprese e di quelle che intercorrono tra imprese nel mercato. Un tale principio deve divenire motivazione interna dell’azione in entrambi i campi. Oltre alla motivazione di produrre beni e servizi con il minor dispendio di energie; di perseguire il profitto, fine legittimo dell’impresa; di pagare l’operaio in base alla sua prestazione, ci dev’essere la motivazione che sospinge a dare lavoro, a pagare equamente i lavoratori, perché esseri umani uguali a me, esseri fraterni, esseri aventi responsabilità famigliari, ai quali spetta non solo il minimo sindacale, bensì una remunerazione che tenga anche conto del loro contributo al reddito nazionale e mondiale.
Il principio della fraternità, secondo Benedetto XVI, trova una declinazione privilegiata nell’area intermedia che si va costituendo tra profit e non profit, in cui il profitto è perseguito come strumento per realizzare finalità umane e sociali. Secondo il pontefice, quest’area va accresciuta, perché essa, con i suoi valori di fraternità e solidarietà, costituisce in certa maniera l’humus da cui si alimentano le stesse macroimprese. Proprio per questo, nella CIV si invoca che quest’area intermedia trovi ampia ed adeguata configurazione giuridica e fiscale in tutti i Paesi (cf CIV n. 46).
La fraternità, così come è pensata da Benedetto XVI, ossia non come un vago sentimento, bensì come un farsi carico del proprio simile per rispondere alle sue esigenze e alla sua dignità di Figlio di Dio, sollecita al rafforzamento di un’imprenditorialità plurale, plurivalente. Per rispondere ai molteplici bisogni dei cittadini e della società, per conseguire più efficacemente il bene comune, tutti debbono divenire più imprenditivi, attivi e creativi. Urge dar vita a vari tipi di imprese, che vadano ben oltre il modello di quelle «private» e «pubbliche», con uno scambio e una formazione reciproca tra le diverse tipologie di imprenditorialità e un travaso di competenze dall’una all’altra. In tutto questo, la fraternità svolge la funzione di un potente incentivo: quanto più numerosi sono i bisogni della persona e della società, tanto più debbono essere moltiplicati i vari tipi di impresa; quanto più si vuole rendere il sistema imprenditoriale commisurato alla dignità delle persone e ai bisogni della famiglia, del bene comune, dello sviluppo dei Paesi più poveri, tanto più bisogna incrementare non solo quanto è prescritto dalla legge, ma anche quanto è suggerito dal nostro sentirci e percepirci un’unica famiglia umana, nella quale la crescita degli uni dipende da quella degli altri, nella quale vi sono doveri che, pur non essendo imposti per legge, sono ugualmente cogenti per il fatto che siamo tutti interdipendenti, in quanto partecipi di una stessa umanità.
3. Conclusione: il segreto della propria visione nuova della realtà e della propria efficacia
apostolica
Siamo, dunque, secondo la CIV, chiamati ad essere annunciatori e testimoni di una vita animata dalla carità e dalla verità di Gesù. Uno degli strumenti fondamentali è la dottrina sociale, definita da Benedetto XVI “caritas in veritate in re sociali”. Essa ci indica i punti di riferimento essenziali sul piano della fede, dei principi di riflessione, dei criteri di giudizio e degli orientamenti pratici, per avere uno sguardo nuovo e più veritiero sui problemi, per divenire non solo trasformatori ma trasfiguratori della realtà secondo la prospettiva di una «civiltà dell’amore fraterno». Di essa occorre divenire soggetti non solo fruitori ma “creatori”, costruendo una nuova società, più degna dei figli di Dio.
Ma, al fine di essere protagonisti di una nuova evangelizzazione del sociale, è anche importante la preghiera.
Nella parte finale dell’enciclica Benedetto XVI afferma: «Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia. Di fronte agli enormi problemi dello sviluppo dei popoli che quasi ci spingono allo sconforto e alla resa, ci viene in aiuto la parola del Signore Gesù Cristo che ci fa consapevoli: « Senza di me non potete far nulla » (Gv 15,5) e c’incoraggia: « Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28,20). Di fronte alla vastità del lavoro da compiere, siamo sostenuti dalla fede nella presenza di Dio accanto a coloro che si uniscono nel suo nome e lavorano per la giustizia. Paolo VI ci ha ricordato nella Populorum progressio che l’uomo non è in grado di gestire da solo il proprio progresso, perché non può fondare da sé un vero umanesimo. Solo se pensiamo di essere chiamati in quanto singoli e in quanto comunità a far parte della famiglia di Dio come suoi figli, saremo anche capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie a servizio di un vero umanesimo integrale».
Da ultimo, il pontefice conclude: «Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace. Tutto ciò è indispensabile per trasformare i « cuori di pietra » in « cuori di carne » (Ez 36,26), così da rendere « divina » e perciò più degna dell’uomo la vita sulla terra. Tutto questo è dell’uomo, perché l’uomo è soggetto della propria esistenza; ed insieme è di Dio, perché Dio è al principio e alla fine di tutto ciò che vale e redime: « Il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio » (1 Cor 3,22-23). L’anelito del cristiano è che tutta la famiglia umana possa invocare Dio come « Padre nostro! ». Insieme al Figlio unigenito, possano tutti gli uomini imparare a pregare il Padre e a chiedere a Lui, con le parole che Gesù stesso ci ha insegnato, di saperLo santificare vivendo secondo la sua volontà, e poi di avere il pane quotidiano necessario, la comprensione e la generosità verso i debitori, di non essere messi troppo alla prova e di essere liberati dal male (cf Mt 6,9-13) (CIV n. 79).